Qui Locarno – Il Pardo premia chi non rinuncia a porsi domande tra identità e spettacolo
La chiave del dilemma europeo, la relazione fra l’identità germanica e quella ebraica. La Memoria viva. Il grande cinema fatto di racconto, di avventura e sentimento. I diecimila di Locarno, che sotto miliardi di stelle colmano una delle più belle piazze salotto d’Europa e in queste notti d’agosto la maggiore sala cinematografica del mondo, decidono secondo i canoni della democrazia svizzera, senza lasciare deleghe. Per la giuria popolare della sessantacinquesima Mostra internazionale del film, il grande festival cinematografico del Pardo, che mantiene il baricentro sulla produzione indipendente, sulle culture minoritarie e sui film al riparo dalle massificazioni commerciali, il verdetto è chiaro. E’ il tedesco Lore, realizzato in coproduzione con Gran Bretagna e Australia da Cate Shortland e interpretato da Saskia Rosendhal e Kai Malina a conquistare il Gran premio del pubblico.
Durante gli ultimi giorni della guerra in Germania, un gruppo di bambini si appresta ad attraversare il paese in macerie per raggiungere la nonna, a circa novecento chilometri in direzione nord. I loro genitori, nazisti delle SS, sono stati arrestati dagli Alleati. Lore, la sorella maggiore, si prende cura dei fratellini. Il viaggio da un capo all’altro della Germania distrutta e occupata li metterà a confronto con la realtà e le conseguenze delle azioni perpetrate dai genitori. Lungo il tragitto incontrano Thomas, un giovane rifugiato, ebreo o forse preteso tale, carismatico e intrigante che risveglia in Lore sentimenti contrastanti, un misto di repulsione e desiderio. Pietrificata dalla paura, per riuscire a sopravvivere la ragazza dovrà imparare a fidarsi di quello che le è sempre stato descritto come il peggior nemico.
Straordinaria la riuscita di una produzione che ha utilizzato mezzi limitati per tentare il salto nel grande spettacolo, grande prova per i giovanissimi interpreti. Le ferite dell’Europa tornano alla luce attraverso un viaggio verso la consapevolezza e la resa dei conti, l’accettazione e la passione, l’inspiegabile distruzione e la necessaria ricostruzione.
Al banco di prova del Festival, come è ormai consuetudine da molti anni, anche le nuove prove della produzione cinematografica d’Israele.
Locarno ha consacrato quasi tutti i grandi nomi della cinematografia israeliana e anche quest’anno la giuria del concorso Cineasti del presente dedicato ai registi più giovani ha riservato un premio speciale al Not in Tel Aviv di Nony Geffen.
Intellettualistico, manierato (e ricco di citazioni colte, a cominciare dal bianco e nero, dalla cinematografia Nouvelle Vague, in particolare dal Godard scapestrato del 1960 di Fino all’ultimo respiro – A bout de souffle), quasi irritante nel suo bisogno di provocare ad ogni costo, Geffen, che è alla sua prima prova nel mondo del lungometraggio, insiste sulle scia dell’iperautocriticismo cui il cinema israeliano ci ha ormai da tempo abituati. In Not in Tel Aviv un insegnante di liceo frustrato perde il lavoro e decide di portare tutti quanti alla rovina insieme a lui. Sull’arco di pochi giorni, rapisce una giovane studentessa, si mette in contatto con una vecchia fiamma, perdona un amico di lunga data, uccide sua madre, si mette contro un gruppo di femministe, litiga con una star del cinema, fa arrabbiare la polizia e sovverte le soffocanti convenzioni della noia quotidiana. Una prova in cui i critici hanno mostrato di credere anche grazie al ritmo che Geffen è comunque riuscito a imprimere alla sua folle corsa durante tutto il film e all’incanto che i tre giovani interpreti (oltre allo stesso Geffen, che sa stare abilmente su entrambi i fronti della cinepresa, brillano Yaara Pelzig e Romy Aboulafia), ma che faticherà a convincere facilmente chi conosce l’Israele reale.
Ancora meno convincente, eppure tagliente come una lama il provocatorio corto The Pit di Itamar Lapid, apparso nel concorso internazionale Pardi di domani. Sedici minuti che fanno male, ma cinematograficamente ben giocati, per raccontare la disperazione dei lavoratori clandestini immigrati in Israele e sfruttati in un cantiere edile e la risoluzione violenta di un gruppo di giovanotti della buona borghesia israeliana ideologizzati fino all’estremo che si improvvisano brigatisti dei giorni nostri e tentano di fare giustizia con le proprie mani.
Nel caos urbano di Tel Aviv, due giovani radicali decidono di aiutare un gruppo di operai stranieri cui sono negati i più basilari diritti civili. Attoniti, scrutano il cantiere in cui si svolgono i misfatti, un grande scavo che si presenta come un vuoto inserito in mezzo alle strade più trafficate della città.
Solo pochi spunti fra le centinaia di novità apparse sulla scena locarnese e destinate a segnare la nuova stagione cinematografica. Solo per segnalarne ancora un paio il brillante Ruby Sparks di Jonathan Dayton e Valerie Faris, che dopo aver messo a segno proprio a Locarno il Little Miss Sunshine del 2006 tornano alla carica con un compendio di fascino e spirito, fra amore e letteratura, del cinema americano che non rinuncia a pensare e per di più si avvalgono di una sceneggiatrice e di un’interprete incantevole come la giovanissima Zoe Kazan (nipotina del mitico Elie).
Sul fronte di una ricerca identitaria fortemente intellettualistica che riesce tuttavia a far nascere dal rigore lo spettacolo, l’austriaco Museum Hours, diretto dall’americano Jem Cohen. Il mitico Kunsthistorisches Museum di Vienna diventa il misterioso crocevia da cui un guardiano e una enigmatica visitatrice partono per l’esplorazione delle loro vite, della città e dei modi in cui l’arte riflette e dà forma al mondo. Difficile e emozionante, come tanto di quello che Locarno offre. Con lunghi scrosci di applausi di un pubblico che riafferma come sia possibile fare cinema e grande spettacolo con piccoli mezzi e senza rinunciare a porsi domande.
Guido Vitale