ghèr

A proposito degli interrogativi posti da Dario Calimani nel suo alef/tav della scorsa settimana, si possono fare alcune considerazioni. Non sempre ci è interdetto menzionare a un Ghèr, proselita, il suo passato e il suo percorso. Da un lato i nostri Maestri sono molto attenti alle difficoltà di ordine psicologico che incontra un ghèr. “Non opprimete il ghèr” (Shemòt, 22; 20), ingiunzione che il Tanà devé Eliahu Rabbà, 27, interpreta come: “Non opprimerlo con le parole… non dirgli: ieri eri idolatra… e hai ancora la carne di maiale tra i denti, e tu adesso vuoi parlare con me?”. La Torah ci impone costantemente di destinare un affetto e un amore speciali al convertito. I Maestri hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per evitare che il convertito all’ebraismo potesse sentirsi escluso o messo al margine dalla comunità ebraica. Il convertito non deve mai sentirsi inferiore agli altri ebrei. Parimenti, un Ghèr non dovrebbe sentirsi neppure superiore facendo pesare alla comunità gli sforzi che la sua scelta comporta. Basti pensare all’uso della parola “bà”, “viene”, nella frase “gher shebà lehitgajer”, “un proselita che viene a convertirsi…”, frase che i Maestri adoperano per ribadire il concetto che deve essere lo stesso convertito a dare inizio alla propria conversione e che il suo desiderio di far parte del popolo ebraico deve essere spontaneo. L’uso dell’espressione “gher scebà lehitgaier….”, anzichè “goy” o “nochrì'” , un gentile, uno straniero (…che viene a convertirsi…), che ritroviamo in tutte le fonti rabbiniche per designare coloro che si trovano nella fase precedente alla conversione, lascia intendere che il convertito sincero è considerato come ispirato dall’ebraismo anche prima di convertirsi. I Maestri arrivano ad affermare che “sebbene il convertito non sia stato personalmente presente ai piedi del Sinai, il suo Mazal era là…”, secondo quanto afferma Rashì, in Meghillah 3 a. Il termine “mazal” indica qui il doppio spirituale che nel mondo celeste è stato assegnato a ogni essere umano. I Maestri del Talmùd, per descrivere questa rinascita del convertito, adoperano l’espressione “Ghèr shenitgaier kekatan shenolad damè…”, “chi è diventato un proselita è come un bimbo appena nato…” (Yevamòt, 22a). Per questo motivo, ultimato il bagno, il convertito riceve un nuovo nome accompagnato dall’indicazione “ben Avraham Avinu”, se uomo, “bat Avraham Avinu”, se donna, “figlia/o di Abramo nostro padre”. In questo caso assistiamo viceversa a una pubblicizzazione del percorso e dell’identità del Ghèr.

Roberto Della Rocca, rabbino