Umorismo e autoironia
Mi pare interessante la discussione sviluppatasi sul tema del cosiddetto “umorismo ebraico”, a cui quest’anno è stata consacrata la Giornata della cultura ebraica (domenica 2 settembre). Da quanto ho capito sono emerse due posizioni: da un lato c’è chi sostiene che il witz, il luogo comune su di sé, l’auto-ironia, siano in realtà tentativi dell’ebreo europeo di farsi accettare da una società pregiudizialmente antisemita, o comunque diffidente nei confronti di questa comunità. In sostanza questo umorismo sfrutterebbe il pregiudizio antisemita (avidità, furbizia, ecc.) facendolo proprio, senza stigmatizzarlo come meriterebbe e preludendo in tal modo al cosiddetto “odio di sé” (categoria molto usata che io considero intellettualmente misera e abbastanza detestabile). Dall’altra parte c’è invece chi sostiene che, in condizioni storicamente avverse, l’auto-ironia fosse l’unica chiave per non lasciarsi irretire dall’ostilità circostante, una sorta di vaccino contro la depressione e l’apatia. Ora, ritengo che entrambe le posizioni esprimano delle suggestioni interessanti. Ma penso che vada sottolineato un altro aspetto: l’auto-ironia contiene in sé l’elemento della flessibilità, una delle caratteristiche dell’epoca contemporanea. Anziché affrontare – senza speranza – i propri nemici a viso aperto, gli ebrei della Diaspora diedero vita a un’elaborazione culturale che ne garantì, pur tra mille tragedie, la sopravvivenza. Una tradizione culturale che faceva perno sui testi sacri, sul rispetto delle norme, sulla loro interpretazione e anche su un filone comico-popolare, che rimescolava pregiudizi esterni e pregiudizi interni. Non è da escludere che in questa operazione vi fosse anche il desiderio di compiacere qualche pulsione antisemita, ma rimane il fatto che gli ebrei sono sopravvissuti nella storia per la loro creatività, per la loro religione, per la propria capacità di produrre pensiero senza essere ancorati a nessun luogo. In questa costruzione tutta virtuale leggo una capacità predittiva del nostro tempo. Non è certo l’unica via, ma non sono proprio queste qualità immateriali a essere esaltate nella nostra società 2.0?
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas – twitter @tobiazevi