Elezioni e gruppi religiosi

Ho letto con grande interesse l’articolo di Stephen Richer, sul numero di agosto di Pagine Ebraiche, in cui si analizzano le percentuali del voto ebraico nelle elezioni presidenziali americane, a partire dal 1928 fino al giorno d’oggi, e si espongono, con precisione e lucidità, le ragioni della persistente preferenza per i candidati democratici, anziché repubblicani (ragioni che Richer sintetizza nei seguenti quattro punti: 1. timore della destra religiosa cristiana; 2. diritti civili; 3. progressismo sociale; 4. laicità).
È interessante notare, al riguardo, che il ruolo della religione (come elemento attivo e determinante dei comportamenti sociali e politici dei cittadini) è stato sempre molto influente nella storia americana, e che, soprattutto nell’Ottocento, ci sono state forti spinte a favore della costruzione degli Stati Uniti come un Paese dichiaratamente “cristiano”. Una tale concezione, ovviamente, avrebbe significato un’automatica emarginazione di tutte le minoranze religiose, e principalmente di quella ebraica (teniamo presente l’immigrazione islamica e asiatica è un fenomeno più recente), ed è stata comprensibilmente avversata, sul piano culturale e giuridico, dagli ebrei americani, come anche da tutti quei gentili che, con diverse motivazioni, hanno ritenuto importante difendere gli ideali di laicità propugnati dai Padri Fondatori (la cui idea di divinità – pur molto presente e determinante – era di stampo essenzialmente giusnaturalistico, nel senso di un Dio di tutti gli uomini, trasversale a tutte le fedi religiose [“nature’s God”, “Dio della natura”, si legge nella Dichiarazione d’Indipendenza]). E uno dei motivi principali, a mio avviso, secondo cui la concezione confessionale dello Stato non ha prevalso, oltre a tali resistenze, è stata la molteplicità e la rivalità delle diverse Chiese protestanti, che, in ragione delle loro differenze e divisioni, non hanno mai fatto “fronte comune” in tale direzione. L’assenza di un unico papa, in America, è stato di grande aiuto nel contrasto alle reiterate interferenze delle Chiese nella sfera civile. Il valore di laicità, tradizionalmente, è generalmente stato più sentito e difeso dai democratici, e ciò spiega la preferenza degli elettori ebrei americani, ma sarebbe ingeneroso asserire che esso sia stato sempre trascurato dai repubblicani, al cui interno le posizioni sono spesso state articolate, a volte contrastanti. Com’è noto, inoltre, i partiti americani hanno un natura molto diversa da quelli europei, in quanto connotati da scarsa rigidità ideologica e burocratica e grande fluidità e mobilità elettorale (si tratta, in pratica, di grandi apparati elettorali, funzionanti per lo più in prossimità delle tornate elettorali).
Ma un dato significativo, emergente dall’analisi di Richer, è come il sostegno a Israele non appaia tra le motivazioni degli orientamenti elettorali, e questo in quanto, per grande fortuna, la simpatia e l’amicizia verso il piccolo alleato appare un valore molto sentito dalla generalità dei politici e dell’elettorato (non solo ebraico) statunitense. Tale circostanza è un fattore prezioso per la sicurezza d’Israele, che ha alla sua base molteplici spiegazioni, ma che non va dato per scontato, né considerato irreversibile. È importante perciò, a mio avviso, che la natura ‘bipartisan’ dell’appoggio a Israele sia preservata come un valore in sé, al di là delle specifiche posizioni assunte, di volta in volta, da questo o quel Presidente. Non mi tranquillizzerebbe un Presidente molto “filosionista” con un’opinione pubblica fredda, distaccata o, addirittura, ostile.
Un’ultima osservazione. Usando categorie “europee”, si potrebbe dire che gli ebrei americani votano, prevalentemente, “ a sinistra”. Nel far ciò, beati loro, non hanno mai dovuto confrontarsi con le sofferenze e le lacerazioni che hanno afflitto tanti ebrei europei, minacciati di scomunica, negli anni passati, dalla Chiesa comunista, che, in America, non c’è mai stata. Un’altra assenza (oltre quella del Vaticano) da cui la democrazia americana ha tratto consistente beneficio.

Francesco Lucrezi, storico