Giornata della cultura ebraica – Facciamoci una risata

Immaginiamo una sit-com: Sara, la protagonista, riceve una visita. Due bizzarri ospiti annunciano a suo marito che presto avrà un figlio. Strane modalità; i due lavorano forse nel laboratorio di analisi a cui si è rivolta Sara? Ma no! Sara ha quasi cento anni – novanta per la precisione – e non si sognerebbe nemmeno di partorire un figlio alla sua età. E all’annuncio non le resta che ridere. Reazione che la maggior parte di noi avrebbe in una situazione simile. Però non è una sceneggiatura per una sit-com: è la Bibbia che ci racconta questo episodio. Esattamente al capitolo 21: la prima volta che si parla di riso della storia (almeno di quella ebraica). E come avrebbe potuto chiamarsi il nascituro se non con un nome nella cui radice stessa compare il verbo ridere? Isacco, il secondo dei tre patriarchi dell’ebraismo, è un nome che in italiano suona come serio ed impegnativo (corrispondente alle storie bibliche a lui legate); significa invece “riderà”. E nei Salmi (2:4) troviamo “Colui che risiede in cielo ride” (Salmi 2:1 Perché si agitano i popoli e le nazioni meditano cose vane? 2: insorgono i re della terra, i principi si consigliano fra di loro contro il Signore e contro il suo unto? 3: liberiamoci i loro lacci, gettiamo da noi i loro legami. Colui che risiede in cielo ride. Il Signore si fa beffe di loro”).
E non è forse detto al capitolo 3 dell’Ecclesiaste “Ciascuna cosa ha la sua stagione e ogni azione sotto il cielo ha il suo tempo (…) tempo di piangere, e tempo di ridere.”
E con antecedenti del genere che cosa avremmo potuto trovare nel Talmud (il massimo testo di riferimento dell’ebraismo) se non un sorriso di Dio? Si affronta la questione del dove si fonda l’autorità per una decisione di carattere normativo. Il problema viene formulato in modo molto particolareggiato e complesso (T.B. Babà Metzia, 59 b). E’ un brano piuttosto noto (è del 2010 l’interessante “Il forno di Akhnai” dedicato da Joseph Bali, Vicky Franzinetti e Stefano Levi Della Torre per i tipi della Giuntina). Si discute della kasheruth di un forno a serpentina e sulle posizioni di illustri Maestri dell’epoca: Rabbì Eliezer e la maggioranza (rappresentata da Rabbì Yehoshua). Ma spetta alla maggioranza o a una voce celeste, (una sorta di megafono divino, che rappresenta appunto la voce, e quindi l’opinione, di D-o) di stabilire la norma? La sorprendente conclusione è che la Torah non è in cielo e che una volta consegnata all’uomo è lui che ne deve determinare confini e modalità. Ma la conclusione ancora più fulminante è quella che ci si palesa alla fine del capitolo; E’ D-o stesso a commentare “I mie figli mi hanno battuto”. E mentre lo dice sorride! Chi racconta quest’ultima parte del racconto è Elyahu Ha-navì, il profeta Elia, fonte degna di fede, che secondo la Bibbia stessa (2 Re, 2:11) era egli stesso asceso in cielo in un turbine.
Ed è sempre lui, Elia, presente in una storia che più di ogni altra dovrebbe illuminarci, su quale è l’attitudine ebraica verso l’umorismo: nel Talmud e precisamente nel trattato di Taanit, (22A) è narrato che mentre Elia si trova nel mercato di Be-lefet insieme a Rabbì Berokà, quest’ultimo gli chiede (in quello che presumiamo essere un luogo assai affollato) chi delle persone che sono lì avrà parte nell’Olam Ha-bà, il mondo a venire. Dopo avere indicato una certa persona e aver discusso su di essa Elia indica solo altri due personaggi: sono due “Badhanim”, persone che vanno in giro a divertire e rasserenare chi è triste. E che intervengono quando vedono due persone in lite tra di loro: vanno lì e mettono la pace. Sorprendente e illuminante insegnamento!
Ed è il Talmud stesso a registrare che uno dei grandi saggi, Rabbah, iniziava sempre le sue lezioni con una storiella per attrarre l’attenzione degli studenti. (Pesachim 117a, Shabbat 30b).
Ma come spiegare la logica talmudica se non con una storiella?: Un uomo va da un rabbino e gli chiede di spiegargli cosa è il Talmud. “Bene.”, dice il rabbino, “Ma prima rispondimi a questa domanda: se due uomini salgono dentro un caminetto e uno viene fuori pulito e l’altro sporco, chi dei due si laverà?” “Quello sporco” risponde l’uomo. E il rabbino: No, perché uno vede l’altro: quello sporco guardando il compagno penserà di essere pulito, mentre quello pulito guarderà il compagno, lo vedrà sporco e correrà a lavarsi”. Ed ora un’altra domanda: “Se due uomini salgono dentro un caminetto e uno viene fuori pulito e l’altro sporco, chi dei due si laverà?” L’uomo sorride e risponde: “Ma me lo hai appena detto tu: l’uomo che è pulito si laverà perché pensa di essere sporco”. “No,” dice il rabbino, “Se l’uomo che è rimasto pulito si guarda, saprà che non si deve lavare, analogamente l’uomo pieno di fuliggine guarderà se stesso e si laverà!”. Ed ora un’altra domanda. “Se due uomini salgono dentro un caminetto e uno viene fuori pulito e l’altro sporco, chi dei due si laverà?”. E l’uomo risponde: Ma, non so, rabbino, dipende dal punto di vista. Potrebbe essere sia l’uno che l’altro. E il rabbino: “Come potrebbero due spazzacamini salire in un comignolo e scendere uno pulito e uno sporco? Entrambi sarebbero sporchi e entrambi dovrebbero lavarsi!”. L’uomo ormai piuttosto confuso dice: “Ma rabbino mi hai fatto tre domande uguali e mi hai fornito tre diverse risposte! Cosa è una specie di barzelletta?” E il rabbino: Figlio mio, no, non è una barzelletta. Questo è il Talmud!”.
L’umorismo ebraico inteso in senso più moderno, forse nasce proprio nelle pieghe nascoste del Talmud: con esso condivide i processi logici più che i contenuti. La logica improbabile e a volte paradossale che accompagna lo svolgimento della discussione talmudica, le argomentazioni talvolta molto sottili e fuori dal “senso comune” sono caratteristiche che hanno molto in comune con il guizzo, il witz, e anche con le battute che ritroviamo nei registi provenienti da Hollywood, da Lenny Bruce a Mel Brooks, a Woody Allen. Ma anche in diversi comici e autori nostrani: da Aldo De Benedetti (purtroppo spesso dimenticato autore di commedie che hanno unito l’Italia in una risata nel periodo detto dei “telefoni bianchi” ed il cui nome dalla promulgazione delle leggi razziali fino alla fine della guerra non poté più comparire nei titoli) a Davide Croccolo, a Franca Valeri, tanto per restare in un passato recente. Nel mondo variopinto dell’umorismo ebraico, in particolare nel mondo mitteleuropeo, trovano posto varie figure tipiche e talvolta surreali, come se fossero appena uscite da un dipinto di Marc Chagall; il rabbino miracoloso, il sensale di matrimoni, l’uomo d’affari, l’accattone, il nullafacente, come in un caleidoscopio mescolano le loro vite e rendono colorati e multiformi il villaggio e le storie che vi sono contenute. Formano una specie di tradizione orale che, passando di bocca in bocca, si arricchisce di nuovi contenuti e diventa quasi mito. Sono gli stessi personaggi che dal surreale mondo favolistico divengono frequentemente i protagonisti delle storielle ebraiche.
E d’altra parte – secondo alcuni Maestri – mettere in pratica le miztvot con gioia è una delle qualità essenziali che dovrebbero contraddistinguere l’ebreo. In Giobbe (8: 21) non è forse scritto “D-o riempirà la vostra bocca di riso e le vostre labbra con canti di gioia”?
L’umorismo e il riso fanno parte di un progetto di più ampio respiro: la gioia. “Il mondo è pieno di persone tristi perché va tutto per il verso sbagliato”, ma il grande insegnamento di Nachman di Brezlaw, è “ma va loro tutto per il verso sbagliato perché sono tristi! “
Secondo il Baal Shem Tov (il “fondatore” del chassidismo) l’umorismo è quella cosa che conduce la mente da uno stato di coscienza ristretta ad uno di coscienza espansa: una persona in tale stadio percepisce la totalità del Creato che è intorno a lui. E quando è l’umorismo il mezzo attraverso il quale siamo trasportati da un luogo di coscienza ristretta ad uno di coscienza espansa, il riso è la nostra reazione a questo vertiginoso processo. E – sempre per restare nella tradizione ebraica-scomodiamo perfino lo Zohar – il più importante libro della tradizione mistica ebraica – dal quale apprendiamo che se non ci fosse uno spirito umoristico non potrebbe esserci la vera saggezza e che dovrebbe essere responsabilità di ciascuno mettere in pratica tale insegnamento . (Zohar, Volume 3, Folio 47b).
Consolati da tanta saggezza non ci resta che ridere, magari facendo ancora una riflessione sul proverbio yiddish “Quello che un sapone fa per il corpo, una risata fa per l’animo”.

Sira Fatucci