Siria – La storia di una comunità salvata
“Non ci sono parole per descrivere le atrocità che vengono compiute in Siria. Non c’è nessuna considerazione per la vita”. I commenti alle notizie dal Medio Oriente che scorrono sulla televisione del salotto di Judy Feld Carr, ebrea di Toronto nata nel 1939, di professione insegnante di musica, sei figli, tredici nipoti, potrebbero essere quelli di chiunque. Ma Judy nelle vicende della Siria non è chiunque. Per quasi trent’anni della sua vita, solo apparentemente ordinaria, si è occupata di contrabbandare fuori dal paese oltre tremila ebrei, in una saga degna del miglior romanzo, ricordata negli scorsi giorni dal Times of Israel.
Tutto ebbe inizio a metà degli anni ’70. Una donna ebrea originaria di Aleppo che viveva a Toronto decise di tornare in patria a trovare il fratello rimasto laggiù. Imprigionata, riuscì in qualche modo a rientrare in Canada. Portando nascosta nella biancheria una lettera, che consegnò alla Feld Carr “Una lettera che mi sarei aspettata ai tempi della Shoah – ricorda la professoressa – Era stata scritta da tre rabbini della comunità ‘I nostri figli sono i tuoi figli. Tiraci fuori da qui’ ricordo che diceva”.
Ci vollero due anni per far fuggire la prima persona, dietro pagamento di un vero e proprio riscatto. Il Canada non aveva un’ambasciata a Damasco, quindi fu difficile trovare il modo di corrompere gli ufficiali siriani che potevano procurare i documenti di espatrio. Quel primo rabbino siriano scappato era già stato imprigionato e torturato, ed era malato terminale di cancro. Grazie a Judy, realizzò il sogno di bere un caffè in Israele con la madre 97enne. Poi espresse un altro desiderio “Porta via dalla Siria mia figlia”. E così la canadese si diede da fare per la ragazza, che all’epoca aveva diciannove anni (oggi vive a Bat Yam ed è nonna). E così uno dopo l’altro, con il sostegno economico della comunità canadese, Judy, senza mai mettere piede in Siria, ha fatto scappare 3328 ebrei sui circa 4600 che vivevano laggiù (la quasi totalità di restanti riuscì a fuggire con mezzi propri o con l’aiuto di Israele). Nel 2001, non rimanevano che poche decine di persone e la Feld Carr dichiarò conclusa la sua missione “Non ho mai chiesto a nessuno di partire, erano gli ebrei stessi che mi facevano pervenire le loro richieste di aiuto. A scegliere di rimanere sono state più che altro persone anziane”. Per 28 anni, l’opera di Judy, è rimasta “il segreto meglio tenuto della storia ebraica”. Nell’ultimo decennio la sua opera le è valsa diversi riconoscimenti. Solo poche settimane fa, il presidente israeliano Shimon Peres l’ha insignita della Presidential Award of Distinction, medaglia che onora “coloro che hanno fornito un eccezionale contribuito allo Stato d’Israele o all’umanità, attraverso le proprie capacità, servigi, o in qualsiasi altra forma”. Nella stessa sera, la salvatrice era stata invitata dalla regina Elisabetta d’Inghilterra a ricevere la Diamond Jubilee Medal, ritirata poi da una delle figlie. Eppure Judy continua a guardare alla sua impresa con modestia. Con la maggior parte delle persone che ha salvato non è mai entrata in contatto diretto (“Insisterebbero per offrirmi cene lussuose e doni, anche senza poterselo permettere, e non è quello che voglio”). Ma commentando ancora quello che sta succedendo in Siria oggi c’è un pensiero che non riesce a togliersi dalla testa. “Non posso pensare a cosa sarebbe successo con una comunità di tremila persone da usare come ostaggio…”.
(nell’immagine in alto i bambini della scuola Maimonide di Damasco nel 1991, sotto Judy Feld carr)
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked