…identità

Credo che la categoria dell’odio di sé, di cui spesso si discute che qui si discute, esista e che si manifesti nel desiderio di rimuovere la propria differenza identitaria per sentirsi uguali agli altri. In questo senso, pare anche a me sospetto il modo in cui molti ebrei cavalcano tesi palesemente occidentali, quando, dal punto di osservazione ebraico, se ne potrebbero denunciare i limiti, che, del resto, ogni approccio porta con sé. È, però, vero, come ci ha insegnato Jung, che le categorie mentali sono stimolate da una densità affettiva che le fa agire dove non si crederebbe. Così, l’odio di sé può manifestarsi anche in coloro che nutrono sensi di colpa nei confronti del proprio passato e che, proprio perché mossi da questi affetti, diventano i più oltranzisti difensori delle tesi che un tempo avversavano. Il filosofo Fulvio Papi una volta mi disse che lui, sempre stato socialista lombardiano, poteva parlare liberamente del comunismo perché non aveva niente da farsi perdonare. In ambito religioso, dove gli affetti coinvolgono costellazioni familiari in modo molto esplicito, il fenomeno è ancor più frequente. Per evitare di scambiarsi reciproche, sgradevoli, accuse che entrano nei tessuti soggettivi delle persone, io suggerisco di parlare della categoria dell’odio di sé per promuovere una riflessione collettiva, senza usarla come una clava da battere sulla testa di altri che potrebbero ribattere con gli stessi argomenti.

Davide Assael, ricercatore