Amos Luzzatto “Sorrisi. Più o meno amari”
Meno di due settimane all’appuntamento con la Giornata europea della cultura ebraica, che domenica 2 settembre coinvolgerà oltre sessanta località in Italia e decine di paesi europei. Tema scelto per l’edizione 2012, l’umorismo ebraico.Tra film, laboratori, mostre e musica, gli appuntamenti in programma racconteranno dunque una delle caratteristiche più affascinanti della realtà ebraica: l’arte di saper ridere e far ridere, nei momenti positivi e in quelli più difficili. Da Woody Allen a Mel Brooks, agli autori di comics, l’ironia è un filo portante che percorre un’intera cultura declinandosi nei secoli in mille forme e contenuti.
Di seguito l’intervento di Amos Luzzatto, presidente della Comunità ebraica di Venezia, città capofila della rassegna.
Su quale fondamento culturale nasce e si sviluppa l’umorismo ebraico? Non certo sulla vita serena, abbondante di risorse e di soddisfazioni di una collettività umana apprezzata dal mondo che la circondava, senza preoccupazioni materiali e morali. Se nella Storia degli ebrei ci sono stati anche periodi con queste caratteristiche, essi sono stati fugaci e inerti, vere parentesi eccezionali. Dispersi in Comunità spesso piccolissime, generalmente incompresi, considerati strani residui di tempi e di società passate, spesso detestati o derisi, gli ebrei traevano la loro forza anche dalla capacità di ridere, più spesso di sorridere dei propri limiti e dei propri difetti facendoli diventare un modo di vivere come tanti altri: questi siamo noi, questi sono i nostri limiti e la nostra realtà: non siamo migliori, ma forse neppure peggiori degli altri. Vi porterò un esempio letterario.Nell’Europa orientale, dove l’Impero zarista raccoglieva la massima parte degli ebrei del Continente, alla fine del XIX/inizio del XX secolo scriveva in yiddish (poi tradotto in ebraico sotto la sua guida) lo scrittore Schalom Jakov Abramowitz, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Mendale Moikher Sfurim, Mendale il libraio (1835-1917), un classico dell’umorismo ebraico. Un suo racconto famoso, I viaggi di Beniamino terzo è stato tradotto anche in italiano. Vi si narra la storia di un Don Chisciotte ebreo che vuole simulare le gesta di due viaggiatori ebrei medioevali, dal nome di Beniamino, come il protagonista. Beniamino terzo vive in un mondo fantastico, che è la sua realtà; ha una rispettabile cultura ebraica tradizionale, è poverissimo, trasforma in realtà vecchi miti e vuole raggiungere le tribù ebraiche scomparse attraversando il fiume leggendario e pericoloso che porta non acqua ma sassi, il Sambatyon; questo fiume “riposa” il Sabato, quando però un ebreo osservante non dovrebbe attraversarlo. Nel suo primo tentativo subisce un colpo di sole e viene riportato al suo villaggio da un contadino ucraino. Come comunicare con il soccorritore? Quello non parla lo yiddish, (e perché dovrebbe?), e quanto a Beniamino, lui conosceva un tempo una sola lingua straniera, i làzis del commentatore biblico Rashi; ma ora li ha dimenticati. Fatica inutile: si tratta infatti di parole del francese antico, linguisticamente anche interessanti, ma che sicuramente il contadino ucraino non avrebbe capito. Ecco qui l’umorismo ebraico, che sorride, con amaro affetto, dei propri limiti, persino del triste isolamento linguistico e culturale di molte comunità ebraiche. È consapevole di questo limite, di questa debolezza. Ma poi ci ride sopra, si stringe nelle spalle, dice “mèile!”, che è una specie di “e va bene!” e riprende la dura vita di tutti i giorni. Certo, le migrazioni del XX secolo, i pogrom dei nostri tempi e il nuovo feroce antisemitismo dell’Europa progredita hanno introdotto motivi nuovi, non ultima la scoperta di società nuove. Ed ecco l’immigrato in America che si ostina a dire che sua moglie is in the chicken to cook a kitchen, ma si esprime correttamente non appena trovato un lavoro. O l’immigrante dalla Russia che a tavola, al compito viaggiatore francese che gli dice bon appetit e lui risponde Goldmann, convinto che il francese si sia presentato con il suo cognome, ma, una volta capito l’equivoco e formulato correttamente l’augurio, ha la sorpresa di sentirsi rispondere Goldmàn. Certo, c’è anche questo, c’è il witz che cerca di rendere la vita sopportabile. E ci sono i miti novelli, come quelli del magico, onnipotente Rothschild. Anche l’Italia è stata teatro di immigrazione ebraica, da altri lidi del Mediterraneo e poi anche dall’Europa centro-orientale. In linea di massima, i nuovi arrivati si assimilavano bene all’ebraismo italiano e all’Italia in genere. Non sempre, però. Io stesso ho cercato di descrivere nel mio libro Hermann le difficoltà di ambientamento di un dotto ebreo tedesco, uno di quelli che sono designati come jekke. In Israele esiste una intera letteratura umoristica su di loro, che insiste spesso su equivoci linguistici, come nel caso dei due guardiani, uno jekke e uno sefardita, che comunicano con il vocabolario. Il primo, allarmato per rumori sospetti, vuol dire al compagno “gib acht!”(fai attenzione), ma traduce con “ten shmone!”(dai otto); e quando questi gli chiede che cosa sia successo, il primo, stringendosi nelle spalle, per dire “ich weiss!” (che ne so!), traduce “io bianco”. C’erano barriere linguistiche? Certo; ma anche queste sono state superate con il sorriso. Mi sia concesso ricordare a questo proposito che fra i primi teatri in lingua ebraica nella nascente Israele non c’era solo la gloriosa Habima che metteva in scena il Dibbuk, ma anche la compagnia del Matatè, La scopa, che presentava pezzi umoristici. Possiamo affermare che anche nell’epopea della costruzione di questa nuova realtà sociale, culturale e statuale che si chiama Israele l’antico e sempre nuovo umorismo ebraico ha trovato il suo spazio e ha dato il suo irrinunciabile contributo.
Amos Luzzatto, presidente della Comunità ebraica di Venezia
(da Pagine Ebraiche, settembre 2012)