Davar Acher – “Una riflessione necessaria”
Ineludibile come le prime piogge dell’autunno, oggi è arrivata anche la giornata della cultura ebraica: auguro a tutti di divertirsi col nostro umorismo, e di farlo un po’ perfidamente, spero, perché la natura profonda del riso è quella di una violenza simbolica, non di una serena e festosa armonia. Che nel caso ebraico si tratti poi principalmente della violenza simbolica che applicano su se stessi i membri una popolazione perseguitata, subendo l’egemonia del punto di vista dei suoi nemici, come sembra a me; oppure della simpatica autoironia di una cultura sofisticata e cosmopolita, come ha proposto su questo sito qualche intervento critico rispetto alle mie analisi, non importa molto oggi. Non è ovviamente mai stata mia intenzione squalificare o scomunicare l’umorismo ebraico, ma solamente far pensare, magari ironicamente, a quel tanto di dubbio che bisogna riconoscere nelle sue radici e in definitiva allo spazio sempre claustrofobico che al nostro popolo è stato dato nella cultura europea, anche quando sembrava trionfarvi (si pensi a Kafka e al suo successo postumo) e alle strategie di autotutela simbolica con cui si è difeso, ma in un certo senso si è anche adattato alla gabbia simbolica in cui era rinchiuso. Ma l’ironia sull’umorismo, come in genere la critica sulla critica, non sono mai facilmente digerite o men che meno bene accette, ho imparato a mie spese. Anche se esercitate in perfetta solitudine e contrastate invece da una maggioranza piuttosto organica e ben insediata, vengono facilmente accusate di prepotenza.
Ma forse proprio nell’ottica del pensiero critico, val la pena di confermare ancora una volta il titolo di questa rubrica (Davar acher, nel senso di opinione dissenziente), facendo notare quanto, proprio dal punto di vista umoristico, sia buffa la canonizzazione della barzelletta in una ufficialissima “giornata europea della cultura”, come se la risata non fosse invece per sua natura dissacrante, sovversiva, irregolare, insofferente degli appuntamenti ufficiali e delle lezioni magistrali. Ancor più in generale, credo, bisognerebbe riflettere sulla voglia di istituzionalizzazione che c’è dietro a questa fioritura di giornate, festival, musei, spettacoli che ormai coinvolgono su infiniti argomenti quasi tutte le comunità ebraiche italiane. Quanti sono i musei ebraici in Italia, da Firenze a Casale a Venezia, da Bologna a Roma, da Ferrara a Trieste? E quanti i festival? Le giornate europee sono almeno due, quella della memoria e quella della cultura, entrambe pensate soprattutto per il pubblico non ebraico. Per fortuna si è deciso quest’anno di dedicarne una anche alla Torah, con un target e un contenuto certamente più ebraici.
Per carità, si tratta di bellissime iniziative che presentano eventi molto interessanti, mettono a disposizione del pubblico oggetti molto belli, tutelano la memoria e comunicano l’identità. Ma c’è un’altra religione, o se volete un’altra minoranza nazionale o culturale che abbia sviluppato di recente come noi una tale passione per la propria istituzionalizzazione? Si pensi ai valdesi o agli ortodossi, agli armeni o ai greci di Puglia… non vi è confronto. Come se per noi fosse più importante conservare, esibire, comunicare, rievocare, spiegare, piuttosto che vivere l’ebraismo… Non so se sia anche questo bisogno di legittimazione nei confronti degli altri, necessità di serbare le tracce di ciò che si sta cancellando, o piuttosto affetto per le proprie radici e fiducia nella cultura.
Certo che la conservazione e la spiegazione prevalgono largamente sulla produzione e sulla riproduzione. E’ un fatto che vi siano più festival ebraici che librerie ebraiche e perfino forse più musei ebraici che negozi kasher, in certi posti più spettacoli ebraici che funzioni ebraiche, più conferenze che matrimoni o circoncisioni, bellissime sinagoghe storiche che non hanno quasi funzionamento regolare, tenute aperta per la visita dei turisti e delle scolaresche e magari frequentatissime. Capisco, lo ripeto, che tutto questo è lodevole e produce intorno a noi un interesse e un rispetto per la cultura ebraica che in altri tempi non c’era. Ma mi viene in mente il museo egizio di Torino, così pieno di splendidi artefatti, intorno a cui si pubblicano dottissime analisi – senza più nessun egizio da millenni che possa dire la sua. O quella battuta di Tucholsky (molto umoristica, molto ebraica) sulle famiglie berlinesi che tutti i pomeriggi all’ora del the vanno a dar spettacolo di sé davanti alla gabbia delle scimmie, solo che le scimmie non ci sono più.
Naturalmente queste iniziative sono pensate con l’intenzione opposta, per cercare di mantenere vivo l’ebraismo italiano e le sue comunità, almeno a livello simbolico, e di per sé – lo ripeto – quasi tutte hanno ottime ragioni e spesso anche buon successo. Diverse piccole comunità tengono ancora proprio perché hanno scelto questa strada e si sono fatte sostanzialmente organizzatrici di cultura ebraica per il consumo esterno, più che centri di vita ebraica attiva nel senso tradizionale. Forse tutto ciò è inevitabile. Ma nella giornata della cultura o forse piuttosto altrove, in una sede comune a tutto l’ebraismo italiano, religioso e no, vicino e lontano, presente alle politiche comunitarie o meno – che certamente oggi manca – forse una presa di coscienza e una riflessione sui vantaggi e sui rischi di una museificazione collettiva andrebbe condotta, e sarebbe forse utile in proporzione alla sua franchezza.
Ugo Volli twitter @UgoVolli