Qui Roma – Umorismo sotto la cintura
Riflettori puntati ieri a Roma, in una Giornata decisamente intensa per numero e qualità delle inizative proposte, sulla mostra Umorismo sotto la cintura: 30 anni di satira politica, di costume, televisiva e cinematografica curata dal noto autore satirico Massimo Caviglia e ospitata presso la Sala Margana. “Più che una guarigione a posteriori dalla sofferenza, l’umorismo – ha affermato Caviglia, tra i protagonisti del ritorno nelle edicole della storica rivista Il Male – fa a priori dell’ebreo un essere umano inattaccabile dal dolore che inevitabilmente ne permea l’esistenza. Che la risata sia rivolta verso gli altri o verso se stessi, anche nel momento della sconfitta l’ebreo, attraverso l’ironia, consegue una vittoria personale. Forte anche della promessa plurimillenaria che il popolo ebraico non avrà mai fine. Una speranza che finora, contro ogni previsione, ci ha permesso di essere ancora qui”. Di seguito il testo integrale dell’intervento L’umorismo ebraico tra dolore e speranza pronunciato ieri nella Capitale.
In 30 anni di attività quale autore di satira, e in oltre 50 anni di vita come ebreo, ho potuto sperimentare come la risata alleggerisca spesso le tensioni e dia sollievo a chi la crea e a chi la riceve. Sono ormai noti i meccanismi alla base di questo procedimento: Freud sosteneva che l’umorismo fosse uno sfogo sicuro e tranquillo al desiderio sessuale e all’aggressione sociale. Ma forse c’è un altro motivo per cui l’ebreo utilizzi così spesso di questa tecnica. In ogni periodo storico l’ebreo si è confrontato con difficoltà che hanno minato la sua stabilità emotiva, e l’umorismo è stato uno dei principali metodi per rimanere persone equilibrate. All’interno di questa capacità va fatto un piccolo distinguo.
Se la comicità coglie il lato ridicolo di un evento, l’ironia – più frequentemente praticata in ambito ebraico – va oltre, facendosi spesso beffe del potere (politico, sociale o religioso).
Mentre il filosofo ateniese Platone riteneva che l’umorismo nascesse dal senso di superiorità, dal godere delle disgrazie altrui, lo scrittore Giovenale nell’antica Roma sosteneva : “Ciò che mi spinge a scrivere è l’indignazione verso il degrado della società in cui mi trovo a vivere”. E lo ribadiva il filosofo Hegel, nella sua opera “L’estetica”, sottolineando come “L’animo puro, non potendo ricreare il proprio ideale in questo mondo senza morale, se ne fa beffe con la satira”. Ma l’umorismo ebraico viene da più lontano.
In questa giornata molti hanno preso spunto dalla risata di Sara nella Torah; io già da ragazzo ne ero incuriosito e ne chiedevo spiegazione ai rabbanim, quasi cercando di decifrare il sorriso della Gioconda. Avevo anche notato che prima di Sara ride suo marito. Mi affascinava constatare che il primo uomo a ridere fosse proprio il primo ebreo, il patriarca Abramo (in Genesi, cap. XVII, vv.15-19), e dopo di lui sua moglie, la matriarca Sara (cap. XVIII, vv. 9-15), proprio coloro da cui discende il popolo ebraico.
In Abramo la risata ha inizialmente una connotazione di sofferenza per la propria sterilità, poi una caratteristica di incredulità per la paternità annunciata, e poco dopo (da parte di Sara) di scetticismo alla notizia della gravidanza. Successivamente la risata diventa paura, perché (anche se espressa solo a livello interiore) Sara teme che venga recepita come scherno nei confronti dell’onnipotenza divina. Infine diventa felicità per il concepimento e per il parto, e si tramuta in una rivincita per il successo ottenuto di fronte a tutti i vicini increduli (cap. XXI, vv. 6-8). Da quella risata deriva anche la grande sofferenza del figlio Isacco (il cui nome significa riderà o colui che ride, dal verbo tsachak) : sua è la sofferenza nel sapere di andare al sacrificio; del padre è la sofferenza di portarlo al macello; della madre la sofferenza nel vederlo andare via pensando che non tornerà; e infine di nuovo la sofferenza del figlio, che torna salvo ma trova la madre morta di dolore. Per essere nato tutto da una risata, gli spunti di riflessione sono molti. Pur lasciando ai rabbanim e agli psicologi l’interpretazione di questi versi, non si può fare a meno di notare che l’umorismo ebraico sia strettamente legato alla sofferenza, fin dalla nascita del popolo stesso. Una vulnerabilità iscritta nel Dna, che comporta una grande forza d’animo per sopportarla, e di cui la risata è la causa scatenante (la ribellione?) ma anche il modo di opporsi alle avversità. L’umorismo ebraico, se non contro se stessi, è rivolto contro il potere: nel caso di Abramo e Sara rappresentato prima dall’onnipotenza divina e poi dalla società circostante, dubbiosa di quella maternità; poi, nel corso dei secoli, rivolto verso un potere incarnato dalle autorità che imponevano le conversioni forzate, i ghetti e le deportazioni; una realtà contro la quale non esisteva altra difesa che le parole. L’ebreo che reagisce con ironia è quindi un piccolo eroe, uno spaventato guerriero che conosce il terribile destino che lo permea dall’interno e lo circonda all’esterno, ma cerca di contrastare in questo modo gli eventi tragici della vita. Come un condannato a morte di lunedì che, davanti al plotone d’esecuzione, dice “Comincia bene la settimana”, così nemmeno le persecuzioni, neanche la morte possono piegare l’ebreo che ha il dono dell’ironia. Con la risata ci si mette quasi alla pari con Dio.
Più che una guarigione a posteriori dalla sofferenza, l’umorismo fa – a priori – dell’ebreo un essere umano inattaccabile dal dolore che inevitabilmente ne permea l’esistenza.
Che la risata sia rivolta verso gli altri o verso se stessi, anche nel momento della sconfitta l’ebreo – attraverso l’ironia – consegue una vittoria personale.
Forte anche della promessa plurimillenaria che il popolo ebraico non avrà mai fine. Una speranza che finora, contro ogni previsione, ci ha permesso di essere ancora qui.
Massimo Caviglia