La sua Chiesa

La scomparsa di Carlo Maria Martini priva l’Italia e il mondo di una figura di intellettuale e pastoredi rara levatura culturale e morale, di una persona che ha speso l’intera esistenza a favore della promozione umana, della carità, dell’integrazione, dell’incontro. La sua Chiesa è stata sempre non quella dell’imposizione, del giudizio, della condanna, ma quella dell’ascolto, della sollecitudine, dell’umiltà, della concreta vicinanza – giorno per giorno, ora per ora – agli ultimi, gli abbandonati, i dispersi. La sua è stata una parola mite, inerme, che, unicamente per la propria intrinseca forza di persuasione, è riuscita a valicare enormi distanze, a raggiungere menti e cuori altrimenti fuori dalla portata di ogni altra voce ecclesiale. Ed è certo un dato significativo che una figura così eterodossa e inusuale, spesso scomoda e controcorrente, nel panorama generale della dominante cultura clericale, abbia potuto raggiungere e conservare una posizione di assoluto prestigio nell’istituzione ecclesiastica, godendo, in una sorta di dorata solitudine, della stima e dell’ammirazione anche di tanti uomini fuori dalla Chiesa (se non contro di essa), senza che ciò potesse essere mai visto da nessuno come un elemento di confusione o ambiguità valoriale.
Uomo del dialogo per antonomasia, Martini ha sempre visto nell’incontro tra le diverse religioni non già (come tanti sembrano intendere) una forma di semplice conoscenza culturale, o di reciproca ‘cortesia’ da buon vicinato, né, tanto meno, di ‘trattativa’ tra ‘potenze’, ma come un’esigenza intrinseca allo stesso sentimento religioso, che avrebbe in sé stesso una naturale tendenza a uscire dai propri confini, alla ricerca di nuovi orizzonti e approdi, nel segno di una continua, feconda inquietudine spirituale. Con tale spirito, è stato anche, per decenni, animatore della famosa ‘Cattedra dei non credenti’, ‘scandalosa’ già nel nome, in quanto volta a dare visibilità e dignitàperfino a tale bizzarra categoria di soggetti (i non credenti, appunto) che, quantunque composta da decine di milioni di persone (forse la maggioranza degli italiani), risulta, ufficialmente, fatta diinvisibili ‘fantasmi’, sconosciuti a qualsiasi statistica.
Specificamente riguardo al rapporto con l’ebraismo, il contributo di Martini al dialogo ebraico cristiano è stato di straordinaria importanza. La radice ebraica del cristianesimo era per lui non qualcosa di astrattamente teologico e dottrinale, confinato nella lontana lettera delle Scritture, ma una sorgente viva, continua e inesauribile di senso: non solo fondamento sotterraneo, ma visibile architrave portante della sua fede cristiana. Martini ha studiato, coltivato e amato un ebraismo vivente, moderno, incarnato in uomini di oggi, e non solo in patriarchi veterotestamentari, e la sua presa di distanza dall’antisemitismo cattolico è stata netta e senza appello.
Certo, per il rispetto che dobbiamo alla sua persona, non possiamo tacere che proprio l’ultimo libro da lui scritto, Le tenebre e la luce, sembra rappresentare, rispetto a tutto il suo precedente percorso(come avemmo a segnalare, su queste colonne, il 10 febbraio del 2010), una sorta di arresto, se non di retromarcia, laddove il Cardinale scrive che le tradizioni religiose non dovrebbero essere considerate dei “monoliti immutabili”, ma dovrebbero accettare la possibilità di una propria decadenza, in nome di una nuova vivificazione, per arrivare alla conclusione che, al momento attuale, “il nostro cammino interreligioso deve consistere soprattutto nel convertirci radicalmente alle parole di Gesù, e, a partire da esse, aiutare gli altri a compiere lo stesso percorso”. Parole che non possono non suscitare perplessità e amarezza, nel momento che sembrano chiaramente rinviare a una concezione del dialogo che definimmo, a suo tempo, da “piano inclinato”, atta a fare scivolare (sofficemente, insensibilmente, dolcemente) i dialoganti verso improbabili “equilibri più avanzati”. E parole pesanti, soprattutto, per l’altissima voce da cui provengono: se perfino Martini la pensava così, potrà mai esistere un dialogo “semplice”, senza secondi fini, neanche nascosti, su un “piano orizzontale”?
È una domanda che resta aperta, con il grande rimpianto che il grande testimone non potrà rispondere.
Onore alla sua memoria.

Francesco Lucrezi, storico