Qui Mantova – Etgar Keret al Festivaletteratura

Non è una novità che gli scrittori israeliani, sempre un numero considerevole tra gli ospiti, siano seguiti con enorme affetto e partecipazione dal pubblico del Festivaletteratura di Mantova. Ciò che però contraddistingue l’incontro con Etgar Keret, intervistato da Gianluca Foglia nel chiostro del museo diocesano in occasione dell’uscita presso Feltrinelli della sua ultima raccolta di racconti dal titolo All’improvviso bussano alla porta, è la sensazione di trovarsi a tu per tu con un autore che intende realmente mettere a parte della sua vita artistica e di ciò che muove la sua creatività ogni singolo spettatore.
Il mio bisogno di scrivere è simile a quello di Sherazade ne Le mille e una notte, esordisce Keret. Scrivo per sopravvivere, anche se nel mio caso non c’è nessuno che minacci di tagliarmi la testa se smetto di raccontare. Scrivo per sopportare una vita che è spesso overwhelming, espressione inglese di difficile traduzione che sta per “troppo intensa, in cui succedono troppe cose troppo velocemente”.
Ci sono scrittori – soprattutto romanzieri – che scrivono per poter controllare tutto: nei loro romanzi possono far smettere di piovere quando vogliono, far arrivare l’autobus in tempo…Io, al contrario, sono un control-freak già nella vita e la scrittura è l’unico luogo in cui posso invece lasciare che le cose succedano come vogliono loro, perché tanto non causano incidenti, accadono e basta senza mietere vittime.
A questo punto si interrompe per commentare l’effetto che gli fa sentirsi tradotto: suono molto più saggio in italiano, dovrei avere con me un’interprete italiana ovunque vada, forse i miei amici inizierebbero a prendermi sul serio.
Di autoironia d’altronde Keret sembra essere ben equipaggiato; ne è prova il racconto dell’effetto prodotto in casa sua da una delle prime recensioni apparse sul New York Times, che sancì il suo successo. Mio fratello tornò a casa e mi disse: adesso non è più soltanto la mamma a dire che sei un genio, lo pensa anche il New York Times. Sono in due.
L’anno scorso, proprio a Mantova, Amos Oz indicò Keret come lo scrittore più rappresentativo della nuova onda di scrittori israeliani. L’autore racconta però di avere un rapporto difficile con la tradizione letteraria del suo Paese: ho sempre amato molto gli scrittori israeliani, ma da giovane non pensavo di poter diventare uno di essi perché sono scrittori-profeti, che guidano il popolo come un papa laico, come un faro morale che addita il cammino al lettore.. Io quel ruolo non ho mai pensato di poterlo assumere. Poi è successo che durante il servizio militare ho iniziato a leggere alcuni grandi autori ebrei della diaspora: Kafka, Shalom Alechem, Babel, Bashevis Singer… Allora ho capito che forse sì potevo scrivere, ma così, non come uno che ti guida, come uno che condivide col lettore la sua inadeguatezza, il dubbio… Come uno che incontri sul treno e ti racconta la sua vita.
Al termine dell’incontro una signora del pubblico chiede e ottiene da Keret che legga lui stesso l’inizio del suo racconto Le cose che abbiamo in tasca. Vuole sentire come suona in ebraico. Suona bene. Stralunato e ironico, come uno che è lì per caso.
Uno scrittore israeliano dallo stile diasporico, nutrito dal dubbio e refrattario alle certezze. Forse è proprio questo a fare di Etgar Keret uno degli israeliani più amati e tradotti nel mondo.

Miriam Camerini