Coen
Il libro autobiografico di Claudio Coen, intitolato “C’era una volta… viale Parioli, i Coen e un turbante tra di loro” (Alpes, Roma), che si presenta oggi, mercoledì 12 settembre, presso la Comunità Ebraica di Napoli, si segnala come un testo di alta godibilità, in grado di offrire al lettore, con una scrittura ironica, leggera e scanzonata, una tenera e divertente saga personale e familiare, in cui le piccole avventure e disavventure del protagonista si intrecciano alle vicende, le ansie e le speranze di un’intera generazione italiana, quella nata agli inizi degli anni ’50 e cresciuta tra i disordinati fermenti dell’emancipazione giovanile, della contestazione, delle coinvolgenti ed effimere mode “beat” e “hippy”.
Per quanto riguarda, specificamente, i dati relativi all’appartenenza dell’autore alla Comunità ebraica romana, e, per di più, alla nobile stirpe dei Coen, l’autore riesce a farci partecipi di come tale elemento identitario possa, al di là dell’astratta teoria, incidere nel concreto vissuto di un ragazzo che voglia, il più possibile, vivere e divertirsi da “assimilato”, all’interno del variopinto mondo dei “gentili”, senza con ciò rinnegare un legame che sente particolarmente profondo e vitale, indipendentemente da ogni inquadramento teorico e culturale. Quel che emerge, soprattutto, è come l’incresciosa necessità di confrontarsi quotidianamente con sgradevoli, vecchi e nuovi stereotipi (i luoghi comuni sugli ebrei, le accuse a Israele ecc.) imponga, a un normalissimo ragazzo pariolino degli anni ’60 e ’70, di non fermarsi alle tradizionali, comuni semplificazioni della sua età e dei suoi anni (destra e sinistra, perbenisti e capelloni ecc.), ma di elaborare una visione della realtà più complessa e articolata, in grado di recepire e decifrare il linguaggio del “gruppo” con maggiore prudenza e attenzione di quanto non accada, solitamente, ai coetanei non correligionari. Anche quando, come nel caso dell’autore, non si sono dovuti affrontare episodi di intolleranza particolarmente duri, non solo la memoria familiare, ma lo stesso ambiente circostante impone al giovane ebreo di conciliare, non senza difficoltà, la propria vocazione di “cittadino del mondo” con la naturale funzione di erede e rappresentate di una tradizione che dal mondo, spesso, non pare compresa o benvoluta. Una condizione “border line” che, se, forse, può sottrarre un po’ di serenità e spensieratezza giovanile, certamente aiuta alla formazione di una filosofia di vita più matura e consapevole, più di quanto non possano fare la frequenza di molte ore di lezione o la lettura di molti libri.
Particolarmente felici le pagine in cui l’autore, in una sorta di sorridente autoanalisi, descrive il peculiare, difficile rapporto con la propria alta dignità di Coen: un rapporto fatto, da una parte, di onore, orgoglio e responsabilità, ma, dall’altra, di un grande senso di dubbio e inadeguatezza, per la propria insufficiente conoscenza e pratica della ritualità ebraica, e anche per le perplessità riguardo al significato attuale di una funzione che gli sembra, nel mondo moderno, per certi versi, anacronistica: “il concetto di purezza globale non mi appartiene – confessa -. Chi oggi può considerarsi ‘puro’?”. Eppure, quantunque da ‘impuro’, Claudio Coen mostra, rigo per rigo, una costante fedeltà alla propria radice, anche nella sistematica inosservanza delle mitzvòt (come di fa a osservarne 613 al giorno, ogni giorno dell’anno? si chiede), anche nell’eretico approdo all'”antireligione” di John Lennon (“sono sicuro che se si abolissero le religioni e i luoghi di preghiera ci sarebbe più pace nel mondo”), attraverso un “atto di fede” non meno significativo, quale l’intima custodia della memoria di tutte le generazioni dei propri antenati, a cui mostra di sentirsi profondamente, eternamente legato come Coen, come ebreo, come uomo, nel segno delle parole di Martin Buber: ad appartenerci non è solo “il costume dei padri, ma anche la loro sorte, tutto, pena, miseria, vergogna”.
Francesco Lucrezi, storico