poesia…

Questa Parasha, che quasi sempre leggiamo nello Shabbàth fra Rosh HaShanah e Kippùr, ci viene presentata in forma poetica, di cantica; lo scopo, dichiarato, è che sia facile da imparare a memoria, affinché il suo messaggio non venga mai dimenticato. È un contenuto quantomai opportuno per questo periodo dell’anno: l’ammonizione di Moshè affinché Israele ricordi i benefici che Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ ha dato, ed eviti di cadere negli errori già commessi. È un monito a una continua Teshuvà, un monito da ripetere e ricordare in continuazione, come le filastrocche dell’infanzia. I toni sono a volte morbidi, a volte sferzanti, a volte ironici. Ogni persona deve trovarvi il linguaggio più adatto a se stessa. La cantica è stata effettivamente trasmessa, per iscritto e oralmente, fino ai nostri giorni: ricordo ancora che alcuni anni fa c’era chi la ricordava tutta a memoria fin dai tempi delle elementari. Sembra però che al giorno d’oggi essa non sia più patrimonio comune come solo due generazioni fa. Il rischio è che, se già allora essa era recitata a memoria, ma si era persa la conoscenza e la coscienza del suo messaggio, oggi stia per diventare solo un testo oscuro che sul Séfer compare con un incolonnamento particolare. Dovremmo certamente reimpararla “ ‘ad tummàm”, fino al suo completamento, che certamente non coincide semplicemente con l’ultimo versetto: bisognerebbe che la forma “curiosa” in cui compare nella Torah diventasse motivo di studio e di approfondimento, in modo da farla ridiventare materia di ogni giorno.

Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana