Marzo 1934
Tra le attività dedicate al Dybbuk ieri e oggi nell’ambito di Torino Spiritualità è stata ricordata l’opera lirica “Il Dybbuk” che il torinese Lodovico Rocca ha composto (con libretto di Renato Simoni tratto dal testo teatrale di An-ski) e che è andata in scena per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano nel marzo 1934. Che in un contesto così prestigioso sia stata presentata un’opera tratta dal testo di un ebreo, che non solo parla di ebrei ma è profondamente radicata nella cultura ebraica, potrebbe sembrare (se non sapessimo che le cose poi sono andate ben diversamente) un positivo sintomo di interesse dell’Italia degli anni ’30 per l’ebraismo. Eppure proprio in quel mese si verificavano alcuni eventi inquietanti. L’11 marzo 1934 a Ponte Tresa, al confine con la Svizzera, viene arrestato un giovane ebreo torinese, Sion Segre Amar, che sta introducendo in Italia a bordo della sua macchina riviste e volantini di Giustizia e Libertà. Per caso, ha in tasca una circolare di un gruppo giovanile ebraico, Onegh Shabbat, che svolgeva attività ricreative e culturali. Nel giro di due giorni trentanove torinesi sono arrestati, molti dei quali sulla base della lista di nomi contenuta nel volantino. Per la maggior parte saranno rilasciati quasi subito, ma quindici, una decina dei quali ebrei o di origine ebraica, sono ancora in prigione alla fine di marzo, quando la notizia è divulgata: ‘Arresti di ebrei antifascisti’ è il titolo che si può leggere il 31 marzo sulla prima pagina del quotidiano La Stampa; segue il racconto dettagliato dei fatti con tanto di nomi e cognomi degli arrestati. Si scatena una pesante campagna antisemita; era la sera di Pesach, e Il Tevere titolava, con tono canzonatorio, “L’anno prossimo a Gerusalemme, quest’anno al Tribunale Speciale”. Siamo abituati a considerare quei fatti (narrati con grande efficacia in molte pagine autobiografiche dello stesso Sion Segre Amar) come un segnale di pericolo che molti ebrei di allora non seppero cogliere. Come dobbiamo interpretare la singolare coincidenza con il Dybbuk alla Scala? Un monito per noi oggi? Un invito a diffidare dell’interesse per gli ebrei e per l’ebraismo? O forse la messa in scena del Dybbuk è stata un caso, un’eccezione che non dimostra nulla? O invece rappresenta un barlume di speranza, il fragile sintomo di un legame mai spezzato (tra cultura italiana ed ebraismo) che sarebbe tornato a rinsaldarsi dopo la parentesi delle leggi razziste e della Shoah? Nella mia incompetenza non saprei dire quale sia la risposta giusta, ma certamente la terza mi sembra la più simpatica: vorrebbe dire che la diffusione di una maggiore conoscenza di ebrei ed ebraismo, anche se talvolta appare inutile nell’immediato, potrà dare i suoi frutti nel futuro.
Anna Segre, insegnante