30 anni – Roma non dimentica, la ferita resta aperta
Il prossimo mercoledì, al termine della festività di Sukkot, gli ebrei romani si ritroveranno al Tempio Maggiore per una cerimonia in ricordo dell’attacco in cui, il 9 ottobre di 30 anni fa, sotto i colpi del terrorismo palestinese, perse la vita il piccolo Stefano Gay Taché. Tra gli ospiti il Capo dello Stato Giorgio Napolitano e alcune tra le più alte cariche istituzionali.
Un nuovo studio, a cura di Arturo Marzano e Guri Schwarz, ricostruisce intanto il clima difficile di quegli anni, il linguaggio sempre più aspro dei media e dell’opinione pubblica verso la legittimità stessa di Israele, con riflessi significativi per tutto l’ebraismo italiano, a partire dalla Guerra dei sei giorni (1967) fino alle ore ad altissima tensione che precedettero l’agguato. Nella seconda parte dell’opera una densa analisi sulla nuova stagione di riflessione che, in seguito ai tragici fatti del 9 ottobre, si sviluppò all’interno dei partiti, delle comunità ebraiche e di tutta la società italiana.
L’agguato mortale al Portico d’Ottavia sarà ricordato anche a Gerusalemme con una serata di riflessione, testimonianze e dibattito in programma mercoledì 10 ottobre alle 20 nella Sala degli Affreschi in Rechov Hillel. Nel corso dell’incontro, cui prenderà parte anche il neo ambasciatore d’Italia in Israele Francesco Maria Talò, saranno proiettati spezzoni di telegiornali e rubriche televisive, commenti e interviste dell’epoca, titoli delle testate più importanti, racconti dei testimoni diretti che oggi vivono in Israele. Spazio infine per le valutazioni di Gadiel Taché, fratello del piccolo Stefano e vittima egli stesso del commando palestinese che portò morte e violenza nel cuore di Roma. A moderare i vari interventi David Pacifici, che ha raccolto e ordinato tutto il materiale. Tra gli altri sarà presente anche il dottor Moshé Zarfati, tra i primi a prestare soccorso ai feriti in quella drammatica circostanza.
Il numero di ottobre di Pagine Ebraiche in distribuzione offre ai suoi lettori un’anteprima su questo lavoro inedito e prezioso che sarà nelle librerie in primavera, in prossimità della cerimonia in cui ogni 9 maggio al Quirinale sono ricordate le vittime del terrorismo. Per la prima volta, tra i nomi solennemente pronunciati dal presidente della Repubblica, dovrebbe esserci anche quello di Stefano Gay Taché.
La Guerra dei sei giorni (1967) rappresentò uno spartiacque decisivo per il modo di rapportarsi dell’opinione pubblica italiana nei confronti di Israele – e di riflesso anche verso tutto il mondo ebraico – segnando l’inizio di un processo di allontanamento oltre che di imbarimento verbale il cui apice sarà toccato con la bara lanciata da alcuni facinorosi davanti al Tempio Maggiore di Roma in seguito ai fatti di Sabra e Chatila. Un arco temporale dal quale prende avvio il denso lavoro di ricerca che gli storici Arturo Marzano e Guri Schwarz stanno completando in questi mesi con l’obiettivo di fare chiarezza da una parte sul clima pesantissimo degli anni che precedettero l’attentato alla sinagoga, sul linguaggio adottato dai dirigenti politici e sui venti d’odio propagati dalle realtà sociali e aggregative più influenti, e dall’altra di cogliere le conseguenze di questa campagna una volta arrivati al punto di non ritorno del 9 ottobre 1982. Conseguenze politiche, giudiziarie e mediatiche. Ma anche l’inizio di una fase di ripensamento, all’interno delle comunità ebraiche, sull’effettiva consistenza del morbo antisemita in Italia. Una presa di coscienza che portò a guardare con occhi diversi non solo al presente ma anche a un passato non troppo lontano, alle responsabilità della popolazione italiana negli ingranaggi delle persecuzioni nazifasciste e della Shoah. Lo scritto arriverà nelle librerie a marzo. Giusto in tempo per le celebrazioni del 9 maggio, il giorno solenne del ricordo delle vittime del terrorismo al Quirinale. A trent’anni da quel Sheminì Atzeret profanato dal sangue e, dopo la menzione speciale della scorsa primavera, con un nuovo nome pronto ad essere iscritto nel registro: Stefano Gay Taché. L’approfondimento di Marzano, curatore della prima sezione del volume, si apre con il fatidico 1967 dipanandosi in varie direzioni: politica, con la strada di un sempre più marcato sentimento anti-israeliano percorsa a partire da quel momento, con tempi e modalità differenti, da Democrazia cristiana, Partito comunista e Psi, ma inevitabilmente anche sociale, con l’esordio della questione palestinese nel discorso pubblico, nei giornali, nel palinsesto televisivo, e con la collocazione della lotta dell’Olp e degli altri gruppi di guerriglieri orbitanti nella galassia anti-israeliana tra le grandi vicende partigiane del secondo Novecento. Un fenomeno che guadagna spazio e consenso, molto forte negli ambienti dell’estrema sinistra ma diffuso in modo trasversale anche in contesti sulla carta più moderati, che ha tra i suoi effetti più concreti l’entrata in scena di una retorica che attinge dalle avversità vissute sulla propria pelle dal popolo ebraico per puntare il dito contro Israele secondo uno schema che ancora oggi miete consensi: la trasformazione della vittima in carnefice, il “nazisionista”. “Analizzando i giornali di quel tempo, soprattutto dallo scoppio della guerra del Libano in poi – spiega Marzano – vengono fuori cose terribili. Costanti riferimenti ai nazisti di Palestina, al Ghetto di Varsavia, ad Auschwitz. Un linguaggio velenoso che degenera nell’antisemitismo più becero alimentando un clima davvero pesante sulle comunità ebraiche d’Europa. La tensione si fa sempre più alta”. È una prospettiva di totale irrazionalità svincolata dal contesto in cui fu progettato l’agguato alla sinagoga di Roma, continua lo studioso, ma che finì lo stesso per influenzare in negativo non pochi italiani. Tracce di quella dilagante aggressività è possibile ritrovarle anche negli archivi del ministero degli Interni e in quello della Cgil dove, afferma Marzano, a lettere di condanna dure e senza appello ma non contaminate da un sentimento almeno apparentemente antiebraico, si affiancano testimonianze, anche autorevoli, che non lasciano dubbi sulla loro matrice. Per gli ebrei italiani arriva così il momento di fare chiarezza. Su se stessi, ma anche e soprattutto sugli altri. Amici veri, finti amici, nemici autentici: è tempo di sgombrare il campo dagli equivoci. “La prima guerra del Libano – afferma Schwarz – fu l’occasione di una vera e propria ‘crisi di memoria’ che portò a una trasformazione della rappresentazione collettiva della seconda guerra mondiale, dell’autocoscienza ebraica e dell’immagine stessa dell’ebreo. Un processo che portò a interrogarsi su temi fino ad allora toccati solo marginalmente”. Ad agire nell’ottica di un ripensamento delle proprie posizioni, ma soltanto dopo il 9 ottobre, saranno anche alcuni settori dell’opinione pubblica e della classe politica. Significativo in questo senso toccare con mano le diverse parabole dei partiti di sinistra. È quello che ha fatto Schwarz, cogliendo vari aspetti di un fenomeno estremamente dinamico e complesso. E se il Psi continua ad estendere la propria infuenza sui paesi arabi è nel Pci, sottolinea lo storico, che avvengono le cose più interessanti. Ad aprire il dibattito contribuisce una relazione di Giorgina Arian Levi in cui l’attivista torinese spiega alla dirigenza nazionale i perché più difficili da raccontarsi sulla defezione di numerosi ebrei dal partito. “Nel Pci, nei mesi successivi all’attentato si inizia realmente a discutere di antisemitismo e di rapporto con le minoranze. Un lavorio interno che darà i suoi frutti – spiega Schwarz – portando ad esempio al grande convegno sulle Leggi razziali organizzato da Nilde Iotti alla Camera (1988) e ancora prima alla missione di Giorgio Napolitano in Israele. Segnali di un Pci sempre più distante da Mosca che stava cambiando pelle e mentalità.
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche ottobre 2012