Israele alle urne

La notizia è della settimana appena trascorsa ma non ha sorpreso né gli analisti né lo stesso grande pubblico: la diciottesima legislatura della Knesseth si chiuderà anzitempo. Se la data della sua naturale conclusione rinviava all’ottobre dell’anno entrante il premier Benjamin Netanyahu ha deciso di accelerare i tempi, dichiarando che le elezioni per il nuovo Parlamento si terranno quanto prima, prevedibilmente entro i primi due mesi del 2013. La motivazione addotta per dare corpo a tale decisione è l’impossibilità di fare approvare una legge finanziaria dai contenuti particolarmente marcati, con secchi interventi sulla spesa pubblica, non potendo contare su una maggioranza sufficientemente solida. Ma in realtà le ragioni sono molteplici e rimandano alla strategia di fondo del leader del Likud che, in quest’ultimo anno, è assurto a esponente senza troppi avversari nel mondo politico israeliano. Plausibilmente Netanyahu vuole garantirsi un solido seguito e, quindi, un elevato consenso, quando dovesse decidere una volta per sempre di chiudere il dossier nucleare iraniano. Se negli Stati Uniti a novembre la dovesse spuntare Mitt Romney, di contro ad un pencolante Barack Obama, allora per la leadership israeliana le opzioni e gli spazi di manovra potrebbero rivelarsi maggiori. Il tema della sicurezza, com’è ampiamente risaputo, costituisce una questione imprescindibile nel decision making d’Israele. Un fatto, questo, che si riflette immediatamente sugli equilibri di governo. Nei mesi scorsi il Primo ministro ha misurato gli assensi ma anche i dissensi rispetto all’ipotesi di un first strike acceleratocontro Teheran. Più che l’opposizione di alcuni esponenti politici sono state le riserve provenienti da settori dell’intelligence e dell’esercito ad averlo indotto ad una diversa considerazione l’intera questione dei modi e dei tempi per stoppare la minaccia iraniana. Quest’ultima, peraltro, è strettamente connessa agli sviluppi della politica interna di quel paese, il cui Presidente Mahmoud Ahmadinejad è prossimo alla scadenza del suo mandato, il secondo, risultando quindi non più rieleggibile a norma delle leggi elettorali. Netanyahu, che è un abile politico, vuole inoltre avvantaggiarsi della crisi in cui versa da almeno tre anni Kadima, la formazione politica a suo tempo capitana da Tzipi Livni, allora considerata astro nascente del firmamento politico, destinato, secondo certuni, a mietere successi e glorie ma poi repentinamente scemato. Livni ha ancora un suo seguito ma ha perso il treno più importante, quello che le derivava dall’essere la novità dello scenario politico nazionale. Il capitale elettorale del partito centrista è peraltro notevole, potendo al momento contare su ventotto seggi al Parlamento, di contro ai ventisette del Likud. Ma se qualche anno fa il secondo era dato in via di disfacimento, del pari al Labur, oggi le parti si sono invertite: l’elettorato di Kadima è in libera uscita e l’appetito dei suoi concorrenti non può che esserne stimolato. Netanyahu questo lo sa bene, così come è plausibile che voglia prendere più piccioni con una fava: assicurarsi i voti dei delusi dall’esperienza centrista ma anche stoppare anticipatamente la ricandidatura di Ehud Olmert, già suo vecchio antagonista, la cui credibilità era stata appannata dalle inchieste giudiziarie che lo avevano coinvolto ma dalle quali è poi uscito pressoché indenne. La ritrovata verginità morale, e quindi politica, dell’ex sindaco di Gerusalemme potrebbe infatti rivelarsi particolarmente insidiosa qualora decidesse di porsi a capo di una coalizione neocentrista, nel tentativo di rianimare quel che rimane un’area che è altrimenti senza grandi speranze e che tuttavia può offrire molti voti. In quest’ultima ipotesi confidano anche una parte dei laburisti, che nella Knesseth uscente hanno solo otto seggi. Per Netanyahu è quindi strategica la questione dei tempi: se le elezioni si terranno entro quattro mesi i suoi potenziali avversari non avranno molte possibilità di organizzarsi e, quindi, di dare fiato alle trombe della riscossa contro un governo uscente descritto dai critici come troppo radicale ed eccessivamente condizionato dagli interessi delle diverse fazioni che ne sono rappresentate al suo interno. Anche in ragione di ciò, e del suo indiscutibile pragmatismo, per il premier uscente è importante conquistare l’area centrista: non si tratta solo di portare a sé un cospicuo capitale elettorale ma di riversarne il peso, ad elezioni concluse, nella composizione dell’esecutivo che nascerà dalle urne. L’obiettivo è di ridimensionare le intemperanze populiste di un Yisrael Beitenu così come la capacità di condizionamento delle componenti più religiosizzate. Netanyahu è un laico e sa bene che la sua mission è quella di impedire che il potere di interdizione delle minoranze più “rumorose” – come nei recenti casi legati alla permanenza dell’esenzione dal servizio militare per una parte delle comunità ultraortodosse, oltreché dei benefici e delle guarentigie economiche ancora riservate ad esse – continui malgrado i molti segni di insofferenza di una parte considerevole dell’elettorato israeliano. Da ultimo, infine, Netanyahu nutre senz’altro progetti per il “suo” Likud. Il fatto che negli anni scorsi il partito sembrasse essere consegnato ad un posizionamento nettamente a destra non poteva risultargli facilmente accettabile. Durante il suo dicastero i rapporti interni si sono maggiormente riequilibrati. Anche guardando all’Europa Bibi sa bene che l’obiettivo elettorale, in una democrazia, è di conquistare il centro. Dopo di che, in che cosa esso consista lo possono dire solo gli attori politici più importanti. Anche e soprattutto su di ciò si giocheranno quindi le elezioni a venire in cui i competitori dovranno infine dire qualcosa sui problemi economici di un paese in forte crescita nel volume di ricchezza prodotta ma con una non meno accentuata polarizzazione nella distribuzione dei benefici da essa derivanti.

Claudio Vercelli