Tea for Two – Come eravamo

Il mio obiettivo, una volta finite momentaneamente le fatiche universitarie, era uno solo: tirare fuori l’impolverato libro di cinematerapia acquistato in tempi non sospetti. E seguendo pedissequamente il primo capitolo dall’eloquente titolo Film da vedere tra pianto torrenziale e furia omicida, ecco le istruzioni: guardare Come eravamo. Da anni mi preparavo a questo lungometraggio, il padre di innumerevoli nastri dedicati agli amori infelici, non corrisposti e jellati fin dai titoli di testa. Carrie Bradshaw e le sue discepole lo usano come antidoto al mal d’amore, antidoto e veleno. Come eravamo, ha fondamentalmente quattro protagonisti: Barbra Streisand, Robert Redford, il naso di Barbra Streisand e i capelli di Robert Redford. Inserito il vhs (meravigliosi, vintage vhs, con nastri che si impigliano nel registratore e righe bianche comprese), non avevo preso l’atto con la giusta serietà e canticchiavo stonando la hit di qualche anno fa dei Duck Sauce (uhuhuhuh Barbra Streisand). Mi sono addirittura alzata più volte per rifornirmi di provviste mentre Katie/Barbra rimproverava qualcuno dicendo che era il ritratto della decadenza. Ma la mammoletta che dimora in me fin dai tempi dei cartoni Disney, non ha esitato ad uscire fuori e mi sono trovata impelagata in questa storia struggente. Struggente perché non ci lascia le penne nessuno come nell’ospedaliero Love story o nei film tratti dal ‘lialoso’ Nicholas Sparks. Struggente perché l’amore non è eterno e si scioglie inesorabilmente come neve al sol. La trama è nota ai più: da igloo alle palafitte, da una zattera in mezzo al mare a una penthouse di New York. Katie/Barbra potrebbe tranquillamente essere la figlia naturale di Karl Marx e Rosa Luxemburg, rossa quanto il vestito di Jessica Rabbit, fa comizi universitari per risvegliare le coscienze, ha una cotta per Roosvelt e il ritratto di Lenin nel suo appartamentino da donna emancipata. Ovviamente è ebrea, come specificano tutti i dizionari dei film e suo papà, al quale ha promesso di chiamare una eventuale figlia Rachele. Hubbel (un nome che riecheggia il viscido Humbert Humbert di Lolita) è biondissimo, bel visetto, mago degli sport: insomma basti dire che è Robert-occhi da orsacchiotto- Redford. Uno di quelli che gli americani adorano definire WASP. Ama la bella vita, le ragazze shallow (frivole e poco impegnative) e scrive romanzi senza per questo essere engagé. Come da copione, Katie non resiste e perde di vista i suoi ideali pur di sistemargli i capelli biondo nuance ‘Brad Pitt a inizio carriera’. Hubbel fa il vago, indossa la sua divisa e vuole semplicemente poter azionare e spegnere la verbosa Katie a seconda dei momenti, se è in vena di predicozzi comunisti o se vuole farsi un drink e deridere Eleonor Roosvelt con la sua manica di amici ricchi e vuoti quanto una pancia all’ora di Ne’illà. Lei si strugge, lui è evasivo. Lei indossa completi anni ’70, lui tenute da tennis. Lapalissiana la conclusione: “La verità, cara Katie, è che non gli piaci abbastanza, peccato perché saresti stata la rivalsa per tutte noi che ti adoriamo anche per il tuo naso che ti rende ancora più affascinante”. Allora è giunto il momento, non si può fare altro se non cantare The way we were, precursore delle canzoni di Adele, mentre le lacrime cadono giù come rolling stones. La cosa più divertente è che Redford/Hubbel rimane sorpreso constatando come Katie sia sopravvissuta alla cocente delusione. Come ogni uomo, animale alle volte piuttosto elementare, è basito nel vederla ancora in piedi, con un nuovo taglio di capelli e la forza negli occhi di una che non lo chiamerà più in singhiozzi farneticando scuse per non lasciarlo andare. Grazie Katie, vai al diavolo Hubbel. Oops.

Rachel Silvera, studentessa – twitter@RachelSilvera2