Nòach…

Se nella Parashà di Be-re’shìth domina la volontà creatrice di Ha-Qadòsh Barùkh Hu’, qui è Nòach che deve compiere la fatica di cercare gli alberi adatti per costruire l’arca, tagliarli, preparare la legna, costruire fisicamente un manufatto di proporzioni gigantesche, bollire la pece, spalmarla su tutta la superficie, procurare cibo in abbondanza per uomini ed animali, radunare questi ultimi eccetera. Tanto lunga e tanto faticosa doveva essere quest’opera, se i nostri Maestri ne sottolineano la durata affermando che Nòach ci mise centoventi anni. Perché essi sostengono ciò? Perché Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ non ha fatto trovare a Nòach l’arca bell’e pronta, come successivamente fece trovare il montone ad Avrahàm e le prime tavole a Moshè? Il Midràsh spiega che fu D. stesso ad ordinare a Nòach di impiegare tutto quel tempo, affinché la gente, vedendolo intento all’opera, gli domandasse perché facesse un simile lavoro. La risposta doveva instillare nella gente il timore per l’imminente distruzione del mondo ed indurla alla Teshuvà. Anche per questo era necessario che fosse Nòach a costruire l’arca: per suggerire che è l’uomo che deve fabbricare la sua salvezza, agire per se stesso. Purtroppo, come sappiamo, la cosa non sortì l’effetto voluto: la gente lasciava che Nòach parlasse, e se qualcuno ne rimaneva impressionato, ben presto superava la propria momentanea crisi rituffandosi nell’usuale dissoluto modo di vita. Anche al giorno d’oggi non sembra che si sia tanto progrediti rispetto ai nostri antichi progenitori. Continuiamo a consumare fiato ed inchiostro nel denunciare i rischi dell’assimilazione, della perdita di noi stessi tramite l’inaridimento delle radici; la gente ascolta, legge, talora loda la perizia dell’oratore e la valentia dello scrittore, ma i Battè Ha-Kenéseth restano sempre più vuoti, la trasgressione diventa regola e la regola eccezione. Ma sta solo a noi compiere i primi passi: non possiamo aspettarci di trovare la soluzione preconfezionata e porzionata. Se vogliamo che i nostri giovani siano in possesso di una valida cultura ebraica, non demandiamo la cosa solo ed esclusivamente agli insegnanti, ma viviamola nel quotidiano. Se vogliamo che ci sia un Minyàn per recitare un Qaddìsh, non aspettiamoci che “qualcuno” organizzi il Minyàn, ma proponiamoci come uno qualunque dei primi dieci. Solo la nostra azione potrà contrastare la spinta all’autodistruzione che ancora ci percorre.

Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana