La letteratura ebraica al femminile

Proprio nei giorni in cui le ricercatrici delle università di tutta Italia protestano contro il ministro Profumo per la mancata inclusione nel programma del concorso per insegnanti di scuole primarie e secondarie di storiche, scienziate, scrittrici (ad eccezione di Elsa Morante), filosofe e artiste, così come per la mancanza di qualsiasi accenno ai movimenti femministi e agli studi di genere, l’Università Degli Studi di Milano ha dedicato tre giorni alla scrittura ebraica femminile. Un programma ricco e intenso, che spazia nel tempo e nella geografia. Dal medioevo sefardita a quello dell’yiddish antico, dal ghetto di Venezia all’East End londinese, dal secondo dopoguerra tedesco all’Argentina, dalla Vienna degli anni ’20 all’Israele di oggi e ancora avanti e indietro nella storia e nei luoghi in un caleidoscopio di nomi, parole, fatti e atmosfere che si compongono, scompongono e ricompongono sotto i nostri occhi via via che relatori e relatrici si susseguono. Non è mai facile accomunare e confrontare fra loro diversi artisti, in questo caso autrici, per il semplice motivo che ogni artista è, per definizione, unico e a particolare. In questo caso poi il denominatore comune è di una vastità a dir poco spiazzante. Come trovare allora un filo, un parametro condiviso che permetta un qualche tipo di confronto? Prima di tutto bisognerebbe capire che cosa fa di un’opera letteraria “letteratura ebraica”. Questa è la domanda sospesa nell’aria cui tutti gli interventi aspirano a rispondere. “Semplicemente il tema” è, fra le tante, la risposta di Ana Marìa Shua, scrittrice argentina e ricercatrice di folklore ebraico. Un’opera letteraria non è “ebraica” perché lo scrittore è ebreo, ma perché è ebraico il tema. Ci sono poi naturalmente dei casi in cui è quasi impossibile distinguere fra autore e tematiche. E’ l’esempio di Kafka: la nostra percezione è troppo influenzata dal fatto che Kafka è “l’ebreo” per eccellenza, e quindi viene per forza letto come tale. E poi, in che cosa il fatto di essere donna, oltre che ebrea, influenza la scrittura, il modo di raccontare il mondo? Freud individuava nelle donne e negli ebrei del suo tempo le stesse psicopatologie: quelle degli esclusi che tentano di conquistarsi un posto nella società.
La relazione di Marco Castellari su Grete Weil, autrice di romanzi come il metaletterario Generazioni, pone l’accento sul tormentato rapporto con la Germania: “ Paese dei miei carnefici, Paese della mia lingua”. Un tema, questo del rapporto con la lingua tedesca dopo la shoà, comune a moltissimi autori. Dies ist nicht mein Land, Questa non è la mia terra, è l’ideale risposta di Lea Fleischmann, pubblicata nel 1980 e raccontata da Alessandro Costazza in un intervento su tre autrici a confronto con il loro ebraismo nella Germania del dopoguerra: Esther Dischereit, Barbara Honigmann e Fleischmann, che scelse di vivere nella Germania della DDR per rimuovere ogni traccia di vita ebraica, salvo poi trasferirsi in Israele nel 1979, diventare religiosa e pubblicare libri nei quali spiega la kasherut o il chassidismo di Rabbi Nachman a un pubblico laico. Honigmann racconta un sogno inquietante, avuto dopo la celebrazione del primo seder di Pesach della sua vita: Ero a Auschwitz e c’erano tutti. Come a dire che l’identificazione nella collettività (ebraica?) avviene solo tramite la comune sofferenza. Dopo la letteratura, la sera è tempo di film: tre registe ebree di ultima generazione raccontate e mostrate da Mino Chamla e Raffaele De Berti, sembrano dimostrare la tesi di Freud: le protagoniste dei film Les Chants des mariées di Karin Albou, Cinco dias sin Nora di Mariana Chenillo e Lemale’ et haKhallal di Rama Burshtein sono tutte donne angelicate, votate e disposte al sacrificio per il bene della famiglia, della società, o sempre e comunque di qualcun altro.

Miriam Camerini