Strategia della latitanza
Alle “primavere di bellezza” seguono, in genere, gli autunni di malinconica aggressività. È così nella vita di certe persone; lo è tanto più nel caso di quei popoli che non trovano sbocco nelle loro richieste, vivendo un senso di impotenza accompagnata al disincanto. E da questo punto di vista la cosiddetta «primavera araba» rischia di rivelarsi, nella sua traiettoria, il focolare di una radicalizzazione permanente. In molti l’avevano predetto, perché avevano colto il problema di fondo, ossia che dinanzi al permanere delle diseguaglianze economiche e sociali i cambi di regime rischiano di avvantaggiare quelle forze che meglio sono strutturate, in genere quelle non democratiche, tanto più in paesi dove mai si è data una vera dialettica politica e, nel medesimo tempo, la prassi laica – che separa i fatti del cielo da quelli della terra -, è pressoché sconosciuta. Gli islamisti, variamente assortiti, spesso tra di loro in mortifera competizione, sono tra coloro che si stanno presentando all’incasso della cambiale firmata da quei popoli che hanno rimesso in discussione le autocrazie. Il caso della Siria è solo l’ultimo in ordine di successione. Nell’attuale scenario mediorientale, dopo quasi due anni di sollevazioni, entrano tuttavia in gioco molti fattori. Uno di questi è il comportamento degli Stati Uniti, variamente giudicato, anche a seconda del grado di condiscendenza verso l’attuale amministrazione, ma da diversi osservatori letto come incostante e sostanzialmente deludente. Malgrado le dichiarazioni di principio di Barack Obama, le aperture di credito al mondo arabo-musulmano, l’indicazione della necessità di voltare pagina, al momento attuale, in prossimità della conclusione del mandato dell’attuale presidenza, non è ancora dato capire se la maggiore potenza mondiale abbia una strategia e, con essa, quali siano le priorità che intende perseguire. Gli Usa sono sembrati, in più di una occasione, al rimorchio delle circostanze, subendo le mosse d’anticipo sia di global player, come la Cina e la Russia, sia di attori locali, tra i quali gli stessi movimenti islamisti. Che questi ultimi affollino la scena è fuori discussione. Mentre è materia di confronto, sia in un’ottica strategica che politica, il capire quale debba essere la risposta, caso per caso, da dare ad essi, fermo restando che il loro radicamento, non solo in Medio Oriente ma anche in parte del Sud-Est asiatico e nell’Africa sub-sahariana, è una costante con la quale dovremo confrontarci di qui ai prossimi lustri. Obama si è dovuto confrontare con l’inefficacia della condotta unilaterale promossa in otto anni dall’amministrazione di George W. Bush (le cui premesse si erano tuttavia già misurate negli anni della presidenza Clinton, quando questi aveva deciso di affrontare sia l’Iran che l’Iraq, superando la dottrina che diceva che per smorzarne la forza occorreva mantenere l’uno contro l’altro). In termini di risultati di lungo periodo la «lotta al terrorismo», per come è stata condotta, non ha premiato gli americani, non almeno nella misura in cui speravano potesse farlo. Non di meno, è stata tra i fattori che hanno innescato una destabilizzazione degli equilibri preesistenti al 2001, senza però riuscire ad andare al di là degli auspici di nuovi assetti, che non trovando concrete opportunità non si sono tradotti in percorsi di fatto. La contrapposizione diretta, come è avvenuta con l’impegno militare in Afghanistan e in Iraq, è sempre meno praticabile, sia politicamente che finanziariamente. A ciò si aggiunge poi che gli alleati europei, già da tempo divisi tra di loro sul da farsi e comunque accomunati dallo scetticismo sulla condotta statunitense, oggi non sarebbero nelle condizioni di rispondere a nuovi appelli alla partecipazione ad attività militari congiunte. Dal 2008, quindi, l’amministrazione democratica, alle prese anche con gli effetti sempre più impegnativi della crisi finanziaria, immobiliare e poi economica, ha dovuto faticosamente provvedere ad una sorta di ridisegno dell’agenda delle priorità. Lo ha fatto con scarsa coerenza e con ancora minore intelligibilità, assecondando perlopiù le suggestioni del momento. Da un lato ha cercato di recuperare forze disimpegnandosi, in maniera possibilmente non plateale, da alcuni teatri di crisi e non assumendo altri oneri; dall’altro ha virato verso l’Asia continentale e orientale, lasciando il dossier mediorientale in standby. Dopo di che, ed è questo un inghippo per gli Usa, il Medio Oriente e il Mediterraneo (quest’ultimo a sua volta abbandonato a sé) sono imprescindibili per qualsiasi presidenza. Non si possono giocare sul tavolo dei dadi, come una sorta di dote superflua, poiché se li si dovesse perdere per Washington sarebbe messo in discussione il soddisfacimento di quelle che sono esigenze imprescindibili. Nel caso specifico esse si riconducono a quattro elementi: l’accesso, a regime di libero mercato, alle riserve di idrocarburi e di gas naturali; la continuità della dinastia saudita, garante degli attuali equilibri in campo petrolifero; la libera navigazione nei mari; la sicurezza di Israele (un concetto, quest’ultimo, che ha tuttavia subito mutamenti significativi). Sono quattro target indispensabili ma al contempo troppo onerosi. L’alternativa è stata quindi offerta dalla condotta di bilanciamento locale, che si dà quando una superpotenza non interviene direttamente ma affida ad alleati presenti sul campo (o ad organizzazioni multilaterali) l’onere di mantenere gli equilibri. Obama lo ha fatto per l’Egitto, in Libia e lo sta tentando con la Siria, senza parlare di altre realtà per così dire “minori”. Più in generale il tutto si è tradotto in una apertura di credito verso le organizzazioni islamiste ritenute meno radicali, potenziali interlocutrici di Washington (ma non sue alleate), destinate a garantirne una parte degli interessi senza creare troppi svantaggi: Ennahda in Tunisia, il Partito della giustizia e della libertà in Marocco, i Fratelli musulmani in Egitto. Si tratta di una strategia del contenimento del danno. Al Cairo il presidente americano ha quindi lasciato che fosse l’esercito, la vera spina dorsale del paese, a prendere il pieno controllo della situazione. A Tripoli è stata la Nato ad assumersi questo impegno. In Siria si sta indagando su una qualche partnership, dovendo però fare i conti sia con la Russia di Putin che con l’enfatico ottomanismo di Erdogan, che attribuisce alla Turchia un ruolo strategico in tutto il Mediterraneo di contro alle mire saudite. In tutti e tre i casi i risultati si sono comunque rivelati insoddisfacenti: in Egitto la situazione è precaria e la speranza è che tra salafiti e Fratelli musulmani le tensioni polarizzino a tempo indeterminato il quadro politico; in Libia il trapasso si è consumato, in quanto regolamento di conti tra clan locali, in modo tale da rivelare anche l’inefficienza della Nato e la conclamata recalcitranza degli europei; in Siria il gioco perverso dell’inside war proseguirà fino a che Mosca lo vorrà. Il quadro regionale che ne viene fuori è assai poco promettente. L’Unione Europea si è rivelata non solo fiacca ma per nulla interessata a interagire con gli Stati Uniti. Peraltro le istituzioni continentali hanno rivelato la loro piena sudditanza rispetto al calcolo di interessi di francesi, tedeschi e inglesi, i tre soggetti decisivi per una qualche politica europea del Mediterraneo. (Dell’Italia è meglio non parlare, stendendo semmai un velo pietoso.) Passo dopo passo si è quindi transitati, in vent’anni, da assetti basati su un monopolarismo statunitense, irrobustito da alleanze ad hoc con i poteri locali, ad una situazione di estrema frammentazione. Soprattutto, rischia oggi di sfarinarsi la tattica dell’apertura agli islamisti “moderati”. Che tali spesso si rivelano non essere. In Egitto non è nata nessuna alleanza tra militari e liberali. Piuttosto la Fratellanza musulmana ha eliminato, con il concorso di una giovane generazione di generali, il vecchio gruppo di potere del feldmaresciallo Tantawi. In Tunisia dall’anno in corso Ennahda, morsa ai fianchi, ha iniziato una rincorsa verso il fondamentalismo. In Libia il separatismo tribale e il secessionismo delle tre regioni storiche potrebbe paradossalmente trovare un limite solo nella risposta jihadista, che tuttavia guarda all’Africa sub-sahariana, a partire del Mali, dalla Nigeria e dal Sudan, per adoperarsi nella destabilizzazione anticristiana. Qual è lo spazio di azione per il prossimo presidente statunitense? Molto poco, ad onore del vero. Rimane il fatto che alcune forze politiche della regione sono ora al governo in virtù delle elezioni, seguite ai tumulti e ai rovesciamenti di regime. La qual cosa indica che i giochi potrebbero essere più aperti di quanto non si voglia pensare. Poiché l’elemento che le sollevazioni collettive hanno introdotto stabilmente nei quadri politici nazionali è la stanchezza di una parte della popolazione che chiede prospettive certe e non nuove guerre. Sapranno gli Stati Uniti degli anni a venire superare l’impasse? Forse bisogna guardare al Pacifico più che all’Atlantico per iniziare a formulare qualche previsione.
Claudio Vercelli