La testimone Elsa Morante
Non mi pare che sia stata adeguatamente celebrata, quest’anno, la ricorrenza del centenario della nascita di Elsa Morante: scrittrice, a mio avviso, tra le più grandi di tutti i tempi, straordinaria testimone letteraria della tragedia della guerra e delle sofferenze del popolo ebraico (a cui apparteneva per parte materna, in quanto figlia naturale della maestra ebrea Irma Poggibonsi), una tra le pochissime voci a essere riuscita a coniugare mirabilmente il magistero della creazione narrativa con la responsabilità dell’insegnamento etico. Insegnamento duro, di pietra, privo di sbocchi (come quello, per esempio, di Elie Wiesel) sul piano della fede, quantunque ferita e lacerata, o (come per Primo Levi) sul terreno della missione educativa e pedagogica, della fiducia, nonostante tutto, nell’umana ragione. Un insegnamento chiuso, sigillato, la cui moralità pare risiedere in null’altro all’infuori della pura rappresentazione del dolore. Il dolore degli ultimi, degli sconfitti, dei diseredati, di tutti coloro che la Storia, nel suo flusso crudele, schiaccia e travolge, senza lasciare traccia, segno, memoria. Un dolore che non sarà mai consolato, riscattato, vendicato e, forse, non chiede neanche di essere ricordato. Tanto, a che serve? Solo l’oblio cancellerà il dolore, per lasciare posto a nuovo dolore.
Vale la pena, credo, a distanza di 38 anni dalla pubblicazione del capolavoro della scrittrice, il romanzo La Storia, interrogarsi sulla feroce accoglienza che ad esso riservò buona parte del mondo intellettuale dell’epoca, dedicando al libro – pur accolto da un gradissimo successo di pubblico: anzi, forse proprio in ragione di tale successo – un’impressionante serie di stroncature, volte a demolirlo non solo sul piano narrativo (sdolcinato, sentimentale, retorico…) ma anche, e soprattutto, politico (borghese, reazionario, “antiresistenziale”…: all’epoca non si parlava ancora di ‘revisionismo’, ma il senso era quello). Senza addentraci su un terreno che non ci compete, osserviamo solo, sul primo punto, che le critiche appaiono ingiustificate, ma ben comprensibili, dal momento che la rappresentazione che la Morante fa del dolore è talmente vera, talmente cruda, che il lettore – e soprattutto il critico – si vede costretto parteciparvi emotivamente, o a vergognarsi – inconsciamente – per il proprio rifiuto a farlo. E questo, naturalmente, può mettere in imbarazzo. Quanto al secondo punto (ossia le censure ‘politiche’), credo che il carattere scandaloso del libro sia consistito semplicemente nella scelta dell’ambientazione cronologica del racconto, che va, com’è noto, dal gennaio 1941 al giugno 1947, attraversando l’ultimo periodo della guerra, la cacciata degli invasori, i primi mesi di libertà. Ma in questo breve lasso di tempo, che in tutti i libri di storia del mondo è segnato da una frattura radicale, da un assoluto spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, mentre la grande Storia dei libri registra la Grande Svolta, la piccola storia dei protagonisti del romanzo, uomini e animali (nessuno, come la Morante, ha dato alle bestie un’anima, una ‘personalità’) continua a consumarsi nel segno della sconfitta, dell’irrimediabile solitudine delle creature viventi. Poteva, tale visione, non essere vista come un attentato al mito della Resistenza, della Liberazione, del Nuovo Inizio? Eppure, nessuno come la Morante ha capito, e descritto, l’orrore del nazifascismo. Ma la sua conoscenza dell’animo umano le ha fatto capire come il dolore attraversi la vittoria come la sconfitta, e come il destino dei viventi non possa essere espresso attraverso alcun sentimento, se non quello della pietà. E la sua conoscenza della storia le ha fatto esprimere una dura verità, che sarebbe poi stata ripetuta anche da Primo Levi: “la guerra è sempre”. Non conosce fine, ma, a volte, soltanto una “tregua”.
Francesco Lucrezi, storico