Comics&Jews con Pagine Ebraiche
Pagine Ebraiche ancora una volta protagonista a Lucca Comics & Games, tra i massimi appuntamenti internazionali dedicati all’illustrazione, al fumetto e al fantasy (1-4 novembre). Il giornale dell’ebraismo italiano, con il dossier Comics & Jews, terza incursione negli intrecci tra mondo del fumetto e cultura ebraica sarà distribuito alle biglietterie e a tutti i punti informazioni. Comics and Jews sarà inoltre ufficialmente presentato all’incontro in programma il 2 novembre (ore 11, Sala D’Oro): a partecipare saranno Giorgio Albertini, disegnatore e docente dell’Università statale di Milano, il grande illustratore italiano Vittorio Giardino, i fumettisti Walter Chendi e Luca Enoch (rispettivamente autori di La porta di Sion e La banda Stern), Ada Treves, curatrice del dossier Comics & Jews. E quest’anno per la prima volta Pagine Ebraiche entra nel programma di Lucca anche uno showcase: un faccia a faccia con David B., autore de Il Mio Miglior Nemico (Rizzoli Lizard) che disegnerà per il pubblico durante l’intervista (l’appuntamento è in Sala via Vittorio Veneto alle 13).
Comics and Jews – Israele allo specchio del graphic novel
L’anno 2008 segna per molti versi una svolta nella percezione del fumetto in Israele. Non solo per la prima volta nella storia dell’editoria israeliana un romanzo grafico, Exit Wounds, di Rutu Modan (nata a Tel Aviv nel 1966), entra nella classifica dei libri in ebraico più venduti dell’anno, ma ai comics vengono dedicati due prestigiosi convegni internazionali, uno alla Bezalel Academy of Arts sui legami tra politica e caricatura, l’altro a Mishkenot Shananim per celebrare il centenario della nascita del belga Hergé (1907-1983), il creatore di Tintin. Tra i partecipanti l’allora redattore capo del quotidiano Haaretz, Dov Alfon, direttore editoriale di una delle principali case editrici israeliane, la Kinneret Zemora Bitan, metteva a confronto la quasi assoluta indifferenza con cui fu accolta la prima traduzione ebraica di Tintin nel 1964 e il trionfo invece delle sette nuove traduzioni proposte al pubblico israeliano a partire per l’appunto dal 2007. La constatazione era tanto più interessante che la difficile aliyah di Tintin in Israele non poteva essere solo attribuita ai trascorsi collaborazionisti di Hergé durante la guerra, né ad alcuni episodi di carattere antisemita e razzista delle avventure dell’eroe e del suo cagnolino (tra cui una visita lampo nella Palestina mandataria in tempo per essere rapito da “terroristi” dell’Irgun), accuratamente espunti nelle riedizioni dell’immediato dopo-guerra e di cui negli anni Sessanta poco si sapeva fuori dai circoli di tintinologi accaniti. In realtà questa era dovuta alla diffidenza nei confronti di un ibrido culturale, quale il fumetto, percepito come forma espressiva che al peggio veicolava valori piccolo borghesi e al meglio aveva diritto di cittadinanza solo come mero intrattenimento per l’infanzia. Non bisogna dimenticare che sui comics, come del resto su tutta la cultura popolare, pesava quello stesso pregiudizio che aveva portato le autorità nel 1964 a vietare l’ingresso in Israele ai Beatles di cui era previsto un concerto a Tel Aviv. Tanto si temeva l’esterofilia e le nefande influenze del pop sull’ethos halutzistico della nuova nazione che alla celebre banda di Liverpool ci si riferiva chiamandoli esclusivamente con il nome ebraico di Hipushiot (appunto i maggiolini). Fu così che anche Mickey Mouse, il celebre topolino della Disney, divenne, nei giornaletti per bambini israeliani dell’epoca, Micky Motz, topo sionista le cui avventure vengono ambientate alternativamente nel Kibbutz dove lavora come contadino (Motz in ebraico significa paglia) o nelle file di Zahal di cui è un soldato senza macchia e senza paura. Questo non significa che le prime generazioni di adolescenti israeliani non fossero avide come altrove di fumetti e comics. I supereroi americani erano invece molto popolari anche in Israele e i giovani, ma non solo loro, consumavano tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, gli Stalag, giornaletti a carattere semi-pornografico ambientati in campi di lavoro forzato nazisti e prodotti da autori locali in modo semiclandestino, braccati com’erano dalla censura ufficiale e da genitori pruriginosi. Il titolo di uno di questi fascicoli “Ero la cagna del colonello Schulz” la dice lunga sul suo contenuto, oggi oggetto di rivalutazione culturale e ricercati items di collezionismo fetish, come mostrano il multipremiato documentario di Ari Libsker (Haifa, 1972) nel 2007 e gli studi del sociologo Oz Almog. Allora, quando la politica era una passione nazionale israeliana molto più di quanto non lo sia oggi, solo i vignettisti di satira ideologica che pubblicavano le loro caricature sulla stampa quotidiana potevano aspirare al riconoscimento ufficiale del loro talento artistico, come Dosh (1921- 2000), creatore per Maariv e per il Jerusalem Post di Srulik, simbolo del sabra, o ancora Dudu Geva (1950- 2005), caricaturista celebre in tutto il paese per il suo paperozzo giallo, il cui erede è oggi il disegnatore Michel Kishka (nato a Liegi nel 1964). Affrontare invece il trauma della Shoah attraverso il fumetto rimarrà un tabu infranto solo dall’americano Art Spiegelman con la pubblicazione di Maus nel 1991. Questo non significa che sopravvissuti non avessero fatto ricorso all’arte grafica per testimoniare la loro esperienza già all’indomani della liberazione e alcuni persino nei campi stessi, come Horst Rosenthal, internato a Gurs nel sud della Francia e ucciso ad Auschwitz. Solamente quest’aspetto della loro opera verrà scoperto solo molto più tardi, spesso a titolo postumo, come è avvenuto per quella del disegnatore e inventore di nuove tecniche d’animazione Joseph Bau (1920- 2002), che riuscì a sopravvivere nel campo di concentramento di Plasow e nel ghetto di Cracovia grazie al suo talento di caricaturista e di falsario di documenti. Per un radicale cambiamento nella percezione pubblica del potenziale artistico del fumetto bisogna attendere gli anni Novanta e la concomitante rivoluzione del panorama audio- visivo israeliano, con l’apparizione di reti televisive private – si pensi che sino ad allora non c’era pubblicità in tv! – e l’accesso generalizzato ai nuovi media digitali e satellitari, in un contesto in cui Israele si afferma a livello mondiale come una superpotenza del high tech e delle telecomunicazioni. Il fumetto esce finalmente dagli stretti limiti della caricatura e del libro per l’infanzia e diventa strumento di auto- rappresentazione collettiva, di critica sociale e di testimone dell’attualità. Ma senza la creazione del dipartimento di Tikshoret Hazutit (comunicazione visiva) presso l’accademia di belle arti Bezalel a Gerusalemme, che nei suoi tre lustri di esistenza è diventata una vera e propria serra di giovani talenti, probabilmente non si potrebbe parlare di scuola israeliana del fumetto. Non c’è praticamente oggi professionista delle arti grafiche che non abbia studiato o insegnato a Bezalel, da David Polonsky, illustratore del film di Ari Folman, Valzer con Bashir (2008), di cui ha poi curato la trasposizione in formato di romanzo grafico, a Gilad Seliktar (nato nel 1977) autore, assieme alla sorella Galit (nata nel 1970), del recentissimo Farm 54, per menzionare solo alcuni dei più famosi artisti oltre a quelli che nel 1995 hanno fondato il gruppo Actus Tragicus Comics con l’intenzione di dare massima diffusione internazionale al mondo dei comics israeliano. Amitai Sandy (nato a Kfar Saba nel 1976), rinomato illustratore per la stampa quotidiana, ha persino fondato una casa editrice interamente dedicata al fumetto, la Dimona Comix Publishing e oggi i fans del fumetto possono riferirsi a pubblicazioni specializzate nel settore e a un festival annuale di comics e animazione alla cineteca di Tel Aviv, intitolato Animics e ormai alla sua dodicesima edizione, fondato da Dudu Shalita. Negli ultimi anni si assiste peraltro a un proliferare di scuole che offrono una formazione professionale nel campo dell’animazione e del design, dalla Shenkar di Tel Aviv al collegio Bet Berl di Kfar Saba. Inoltre, accanto a un’intensa attività di traduzione in ebraico dei classici del fumetto internazionale, parallela all’esportazione quasi immediata dei prodotti israeliani all’estero, vale la pena insistere sul fascino che la realtà israeliana esercita sull’immaginazione di artisti. Da prospettive politiche e sensibilità diverse, ma spesso riuscendo a superare le immagini stereotipate, Israele è al centro di tre romanzi grafici che hanno riscosso un successo planetario. Il libro di Sarah Glidden, How to Understand Israel in 60 Days or Less, 2010, che descrive l’esperienza di una partecipante americana al progetto dell’Agenzia ebraica Birth Right, quello di Joe Sacco del 2001, Palestine, diario di un viaggio compiuto a Gaza e nella West Bank tra il 1991 e il 1992, sino al recentissimo Jerusalem: Chronicles from the Holy City del canadese Guy Delisle, uscito quest’anno dopo un soggiorno nel paese di un anno nel 2008. Non c’è dubbio insomma che lo straordinario successo dei comics in Israele a cui si assiste da dieci anni sia uno dei tanti segni della grande creatività del paese e del profondo rinnovamento culturale in atto.
Asher Salah, Accademia Bezalel Gerusalemme, Pagine Ebraiche novembre 2012