“Danzo per cambiare il mondo”

I contrasti e le molte apparenti contraddizioni sono la prima cosa che colpisce quando si ha a che fare con Ohad Naharin, coreografo e direttore artistico della Batsheva Dance Company, la compagnia di danza contemporanea israeliana considerata una delle compagini più interessanti al mondo. È un personaggio, e sostiene di esserlo suo malgrado. Forse ama esserlo. Unisce meditazione e atteggiamenti da guru a un’ironia sottile che pervade ogni discorso e che usa sapientemente per alleggerire la conversazione tutte le volte che sembra stia per prendersi troppo sul serio. Raggiungerlo è difficile. Bisogna mettere in conto numerosi cambiamenti di programma, di orario, anche di data, ma quando si inizia a parlare si percepisce subito che la disponibilità è totale e che Naharin accetta di mettersi in gioco. La sensazione è davvero quella di avere di fronte una persona che non fornisce risposte preconfezionate, già usate nel corso delle tante interviste che gli vengono richieste da ogni parte. Dichiara di non amare la documentazione del suo lavoro, di non essere interessato a riprese e registrazioni e che lasciare traccia non gli interessa, ma quando inizia a rispondere l’attenzione alle parole che usa è tanta. E tiene a precisare con grande esattezza il senso del suo discorso, quasi a non voler correre il rischio che le sue parole possano essere riportate in maniera poco chiara. Le frasi sono lente, spesso interrotte, sospese, e i tempi dei suoi silenzi danno il ritmo a risposte che sembrano essere anche occasione di riflessione. Il dubbio di trovarsi davanti a un personaggio costruito ad arte vacilla davanti allo sguardo limpido e al sorriso sornione e si frantuma definitivamente a sentire la sua voce profonda e avvolgente che per prima cosa cerca di capire veramente chi è la persona con cui si trova a parlare. È innegabile, il fascino di Ohad Naharin è grande, tale da far tornare il dubbio di avere a che fare con un personaggio costruito. La spontaneità delle sue risposte e l’impressione lasciata in chi assiste agli spettacoli della sua compagnia fanno pensare il contrario. Sicuramente, quale che sia la verità, si tratta di un uomo che ha cambiato profondamente il modo di vedere la danza contemporanea, non solo israeliana, che ama appassionatamente quello che fa e che crede in quello che dice. E la prima cosa che dice Ohad Naharin, in apertura di intervista e senza neppure lasciarmi il tempo di abbozzare una domanda sembra una dichiarazione programmatica, che per fortuna verrà poi smentita nel corso della conversazione. “Non parliamo di me, mi mette a disagio”.
Eppure saprà che il suo nome viene sempre accolto con espressioni di meraviglia da chi segue anche minimamente la danza contemporanea.
È raro che io sorrida come in questo momento… sono senza parole, ora, non so cosa dire. Forse fanno così perché hanno dimenticato.
Davvero non le piace parlare di sé?
Non faccio il difficile, non ho nulla da nascondere. E penso si veda da come danzo. Non mi piacciono gli specchi, non amo guardare me stesso mentre vivo. Preferisco vivere.
Sembra un’affermazione di grande lucidità…
In realtà no: io dormo molto poco, passo tantissimo tempo sognando ad occhi aperti. È noto che abbiamo tutti bisogno di sognare. Non è il corpo che ha bisogno di riposare, veramente. Io ho sempre la sensazione che il sonno mi permetta di dare ristoro al mio cervello, alle emozioni. Ed è comunque una sensazione molto fisica.
Sognare ad occhi aperti corrisponde anche al suo modo di lavorare?
Non voglio avere controllo sulle emozioni, è molto più interessante quello che facciamo con esse. Noi non creiamo emozioni, semplicemente ci troviamo a gestirle, in qualche modo. Quando balliamo diventiamo più consapevoli di noi stessi. Abbiamo il senso di una potenzialità infinita. Esploriamo il movimento, ci godiamo la sensazione di bruciore nei muscoli, siamo pronti a scattare, siamo consapevoli della nostra forza e qualche volta la usiamo. Mettiamo le nostre abitudini da parte. Andiamo oltre i nostri limiti. Possiamo essere calmi e attenti al tempo stesso. Voglio essere cosciente e consapevole, quello sì. Voglio trasformare quello che mi circonda. Con la danza.
Non è cosa da poco.
No, lo so. Quando danziamo si crea una risonanza. Una risonanza con le cose, con le persone. Sono piccole cose, bisogna sapersi sintonizzare, è un percorso di scoperta, di ricerca continua… Una ricerca che mi cambia e che ha moltissimo a che fare con un percorso di crescita, e di sviluppo. E forse cambia anche gli altri.
E lei quanto è cambiato, da quando ha iniziato?
Rispetto a quello che ero trent’anni fa sicuramente sono cambiato, ma forse sono solo piccole cose. Sono più il potere dell’immaginazione e la forza che viene dal dare e condividere, che riescono a cambiare le persone.
Sembra quasi un percorso di iniziazione, non la visione di un coreografo. O forse le due cose sono più simili di quello che normalmente si pensa?
In un certo senso quello che faccio è infestare le persone. Contagiarle. Come se fosse una sorta di malattia. Non si tratta di me, io posso solo dare loro le chiavi. Quelle che so usare. Quelle che ho trovato lungo la strada.
Eppure i ballerini che hanno lavorato con lei, in tutto il mondo, la descrivono come un grande maestro.
Il processo creativo è molto personale. Non lo si può insegnare, non davvero. Posso condividere delle sensazioni, posso provocare i danzatori e stimolarli a cercare quello che sono veramente. Non posso fare altro, in realtà. Ma forse non è poco.
No, effettivamente non sembra poco, ma allora cosa serve per creare?
Nulla, assolutamente nulla. Questa è la bellezza della danza. Non servono strumenti. Non servono gadget costosi. La danza ha a che fare con il vuoto. Soprattutto con lo spazio vuoto nella mente delle persone.
La danza contemporanea israeliana sta avendo un grande successo in Italia. Quali sono le caratteristiche che la rendono unica?
Se dei tratti comuni ci sono, e non bisogna mai generalizzare, non dipende dall’essere israeliani; io per esempio mi sento molto vicino a quello che si produce in Finlandia, o in Canada. Credo che i punti di contatto siano dovuti al fatto che in Israele non abbiamo una lunga tradizione di teatro, o di opera. Non ci sono elementi tradizionali a cui fare riferimento. Questo permette una grande libertà. Abbiamo in comune il fatto di non avere una storia comune… di poterci inventare e reinventare ogni volta qualcosa di nuovo.
Si sente ambasciatore di Israele?
Non mi interessa esserlo e troverei molto noioso creare qualcosa che sia un commento diretto alla situazione politica. Non ho problemi a parlarne, la mia posizione è nota.
Dopo tanti anni si diverte ancora?
Ballare mi piace e mi fa stare bene, sì. È parte di me, semplicemente. Mi piacciono cose semplici. Mi piace guardare gli alberi che crescono. Mi piace stare con mia figlia, mi piace vederla ballare. Bisogna saper guardare, è importante. Un buon danzatore è una persona che guarda almeno tanto quanto viene guardata.
Lei ha dichiarato che anche i suoi spettacoli bisogna saperli guardare.
Sì, certo, ma non è una cosa negativa: voglio poter dare fiducia al pubblico, pensare che capiranno. Guardare i miei spettacoli non è facile, bisogna saper vedere la struttura, la dinamica, la mescolanza di forma e contenuto. Bisogna lasciar andare le convenzioni e accettare un’esperienza nuova. Bisogna saper capire quando qualcuno sta ridendo di se stesso, con se stesso. Si tratta di saper percepire livelli differenti. Chiedo tantissimo al mio pubblico, in realtà.
I suoi danzatori sembrano sempre profondamente immersi nelle performance, come ottiene questo risultato?
Questo ha a che fare con il lavoro di ricerca che facciamo attraverso il Gaga. Cercare il piacere e esplorare le nostre sensazioni quando lavoriamo. Sono cose che ci occupano, ci impegnano completamente sia quando stiamo provando che in scena. Siamo appena consapevoli di avere un pubblico che guarda. Come dicevo prima non si danza per mostrare se stessi… I danzatori sono spettatori tanto quanto il pubblico. Non posso pensare che ci sia un muro, una barriera fra chi è in scena e chi assiste. Condividiamo uno stesso spazio, con ruoli differenti. È il bello della danza: è un’emozione, condivisa.

Ada Treves – twitter @atrevesmoked – Pagine Ebraiche, novembre 2012