Vittoria democratica
A conclusione della lunga campagna presidenziale statunitense, credo che sia doveroso, innanzitutto, rivolgere un plauso all’efficienza del sistema istituzionale americano, che, a distanza di quasi due secoli e mezzo, dimostra ancora invidiabili doti di solidità e funzionalità, e una non comune capacità di sollecitare, su larga scala, passione civile e partecipazione democratica. Per la natura stessa del sistema elettorale americano, fortemente caratterizzato in senso personalistico e bipolare, è inevitabile che la competizione sia seguita, tanto negli Stati Uniti quanto nel resto del mondo, soprattutto nella forma di un esplicito ‘tifo’ a favore o contro l’uno o l’altro dei candidati. Anche coloro, fra i cittadini americani, che hanno preferito non recarsi a votare, hanno comunque avuto, tra i due competitori, una chiara preferenza, o una prevalente antipatia. Ma la vera vincitrice, in queste elezioni, come in tutte le altre precedenti, è stata la democrazia americana, che esige che il potere sia periodicamente sottoposto a una stringente ed estenuante ‘prova del fuoco’, attraverso la quale ogni gesto, ogni parola, ogni proposito di chi si candidi a governare, nell’interesse comune, viene passato al microscopio da un’opinione pubblica severa ed esigente, che non fa sconti a nessuno, e non ama essere presa in giro.
Fra i vari temi che sono stati al centro della campagna, il sostegno a Israele è apparso sostanzialmente confermato da parte di entrambi gli schieramenti, e ciò rappresenta, indubbiamente, dal nostro punto di vista, un elemento positivo. Certo, il modo in cui tale solidarietà è stata riaffermata è stato piuttosto diverso tra Romney e Obama: più marcato, deciso ed esplicito da parte del primo, più articolato, mediato e prudente nelle parole del secondo. Perciò – pur perfettamente consapevole del fatto che, in politica come nella vita, non sempre l’amicizia più ‘esibita’ e ‘sbandierata’ è sicuramente la più forte e sincera – mi sono augurato la vittoria del candidato repubblicano, sulla base della speranza che la diffusa ostilità contro lo Stato ebraico potesse essere, almeno in parte, arginata e contrastata – e non solo a parole – , più efficacemente di quanto non sia stato fatto finora. Ma ho trovato un po’ ingenerose alcune critiche rivolte, su questo punto, a Obama, che è interprete di quella larga fascia di elettorato americano che sostiene Israele, ma non considera la sua difesa una priorità assoluta, non, comunque, una ‘mission’ completamente coincidente con la tutela degli interessi dell’America. Certo, sarebbe piaciuto che il Presidente, in questi quattro anni, avesse manifestato con più vigore la sua vicinanza al piccolo alleato, ma bisogna prendere atto che molti americani, anche in ragione della crisi economica, seguono oggi le vicende del Medio Oriente con un crescente distacco, e non sempre considerano Israele una sorta di prezioso ‘avamposto’ dell’Occidente. Può dispiacere, ma è così. Se si fosse votato in Europa, ovviamente, Obama avrebbe trionfato col 90 % dei voti. E ancor più in Italia, dove un ipotetico candidato esplicitamente pro-Palestina avrebbe scaldato molti cuori. Avevamo sperato che l’esito delle elezioni potesse un po’ attutire il pesante senso di solitudine che grava su Israele. Non è andata così, ma non è detto che una vittoria di Romney avrebbe determinato un capovolgimento radicale della situazione. Non è un giorno triste per gli amici d’Israele. Magari un giorno di preoccupazione, come tutti gli altri.
Comunque, se le campagne elettorali dividono, le elezioni uniscono, e il popolo americano si ritroverà, oggi, unito sotto la guida del ‘Comandante in capo’ scelto dal popolo sovrano. E, secondo la migliore tradizione americana, questi sarà chiamato a interpretare il complesso dei sentimenti, degli umori, delle speranze e delle paure espressi dalla generalità dei cittadini, e non solo da quella metà che gli ha espresso fiducia con il proprio voto. E sarà chiamato, soprattutto, a difendere – e non solo nel perimetro dei confini geografici degli Stati Uniti – i valori fondanti della democrazia americana: tanto simili a quelli della democrazia israeliana, come efficacemente attestato da diverse eloquenti analogie tra la Dichiarazione d’Indipendenza degli Sati Uniti e quella d’Israele. Confidiamo che il Presidente Obama sappia farlo.
Francesco Lucrezi, storico