Primo Levi, racconto e autorevolezza

Quarta edizione della Lezione su Primo Levi nell’Aula Magna della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali di Torino. Un progetto, ideato dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi, teso ad alimentare il dibattito sui temi più cari allo scrittore torinese.
Relatore di questa lezione dal titolo un po’ provocatorio “Perché crediamo a Primo Levi?” è stato Mario Barenghi, docente di Letteratura italiana contemporanea dell’Università di Milano-Bicocca, che si è chiesto quale sia il fondamento dell’autorità e dell’attendibilità del resoconto dell’esperienza di Auschwitz narrata in Se questo è un uomo. Le risposte, ha spiegato, vanno ricercate nella scrittura stessa e nel procedimento che ha portato Levi a raccontare per ricordare, e non viceversa: l’obiettivo è dare valenza passata ai ricordi perché se non vi è passato non può esserci memoria.
Il punto di partenza di questa analisi sta nella difficoltà del raccontare, che è propria dei memorialisti di esperienze estreme. Il racconto attinge esclusivamente dalla memoria: più che di “fallace memoria”, così la definisce lo stesso Levi, bisogna rifarsi a una definizione platonica secondo cui “la memoria non è un blocco di cera su cui si imprime un sigillo”. Anzi, la memoria è per sua definizione elastica e plasmabile, serve ad operare un servizio del futuro e non del passato; per essere conservata deve essere modificata, nel senso che bisogna darle una forma.
Se questo è un uomo si fonda perciò su un’economia della memoria, in quanto essa è una miscela di ricordo e di oblio, è selezione. Levi sottopone i suoi ricordi al vaglio, utilizzando parametri analitici ed estende questo metodo propriamente scientifico alla scrittura stessa, che diventa limpida e lineare, priva di particolari scabrosi e atroci. Ed è proprio questa scrittura lapidaria che gli permette di penetrare nelle menti di una vasta platea di lettori. Il ruolo di cui Levi si ritiene investito è quello di testimone: raccontare per non dimenticare. Il problema non è il rievocare, è lui stesso a parlare di “ricettività esaltata” della sua memoria nel periodo dell’internamento, anche perché il ricordo del lager è impresso in modo indelebile nella sua mente, il rischio è semmai di esserne sopraffatto.
Ciò che ha fatto è stato dare una struttura alle proprie esperienze, facendole transitare dall’orizzonte personale dei ricordi vivi e dirompenti del campo di sterminio, all’orizzonte collettivo. Ha fatto della memoria un fatto sociale. Per rendere la memoria condivisibile occorre quindi introdurre un diaframma temporale: utilizzare il passato in funzione del presente, elaborarlo, filtrarlo, distillarlo: “meditate che questo è stato”. L’obiettivo è rendere tutto al “passato prossimo”: rendere il ricordo passato affinché possa mantenersi nel futuro. È questo a conferirgli piena autorevolezza agli occhi del lettore, è questo a renderlo testimone e scrittore insieme.

Alice Fubini