Savinio e la città del Worbas
Questa settimana niente Ticketless. Una scheda dal Libro dei Buoni. Mi è venuta voglia di proporla, sfogliando il terzo tomo dell’”Atlante della Letteratura Italiana”, appena uscito a cura di Domenico Scarpa (Einaudi). Pesa alcuni chilogrammi, non è una lettura da treno, ma quando sta fermo un viaggiatore che si rispetti deve tenere sempre a portata di mano un atlante. Per la prima volta, in una grande operazione editoriale, il posto che gli ebrei italiani hanno occupato nella storia nazionale fra Otto e Novecento è al centro di diversi contributi nell’Atlante. Adesso tuttavia risulta più chiaro quanto poco si siano curati del “personaggio ebreo” le patrie lettere, tolte rare eccezioni. Tra queste Alberto Savinio. Mi piace oggi associare il ricordo del Savinio ferrarese (“l’ora ebrea”, Isabella Hasson, ma soprattutto “la città del Worbas e del pan massì) alla cara memoria di Paolo Ravenna, scomparso nei giorni scorsi. Wor bas è il motto scritto sui cartigli nella torre dei leoni del Castello Estense. Due parole scritte fra due leoni. L’anima del Worbas pervade, secondo Savinio, il pan pepato e il pan di cedro, dolci ferraresi che si trovano “nella Vignatagliata, nel vicolo Mozzo, in quella via Sabbionara che divenne poi via Mazzini, per riconoscenza alle istituzioni liberali inaugurate dal giovine Regno, che infranse le catene, di cui ancora si scorgono i mozziconi pendenti dai pilastri delle porte di pietra, aprendo il serraglio”, dove gli ebrei di Ferrara “annaspavano rinserrati, tra puzzi d’olii e odor di panazimi”. Assai prima di Bassani, Savinio ha legato per sempre all’ebraismo il paesaggio ferrarese. Ogni volta che mi capiterà in futuro di pensare a Paolo Ravenna, a quanto con tenacia ha fatto per la sua città, mi farà piacere rileggere dal mio Libro dei Buoni la pagina di Savinio in cui si pronuncia l’elogio di quei “dolci metallici, compatti più dei libri di Balzac”.
Alberto Cavaglion