Elia Dalla Costa: Giusto tra le nazioni

L’avvenimento anticipato da Pagine Ebraiche di giugno si è concretizzato: lo Yad Vashem ha ora ufficializzato che l’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa è stato nominato Giusto fra le Nazioni. Una forte affermazione di come anche nei momenti più bui il coraggio potesse essere praticato da chi visse la propria fede a testa alta.
Qui di seguito uno degli articoli pubblicati nelle pagine speciali del giornale dell’ebraismo italiano.

Avessero scelto i diavoli, magari avrebbero fatto il mio nome. Avessero scelto gli angeli, sarebbe stato eletto Elia Dalla Costa. Ma questa volta, evidentemente, hanno votato gli uomini…”. Il fumo della stufa della Cappella Sistina disegnava dalla piazza San Pietro nel cielo di Roma un sottile filo di bianco, quel 2 marzo del 1939. Eugenio Pacelli si apprestava a salire al soglio pontificio con il nome di Pio XII dopo due fumate nere emesse nelle ore precedenti. Il segnale che annuncia ai romani l’elezione di un nuovo papa esce, come è noto, dal rogo delle schede che i partecipanti al conclave utilizzano per votare mescolate a speciali sostanze che determinano il colore della fumata. Il destino che gli uomini si scelsero pose Pacelli su quel trono tanto discusso dal quale avrebbe assistito e in parte condizionato gli esiti degli anni della guerra, delle persecuzioni e dello sterminio. Se l’esito della votazioni è destinato a essere coperto per sempre dal segreto delle fiamme e dalla cenere, il discusso pontificato di Pio XII, da cui dipesero in tanta misura i destini di Roma, dell’Italia e di quei molti che dalla bestiale furia delle dittature poterono o non poterono salvarsi, assume una svolta determinante proprio in quel momento. Alla vigilia della tempesta, mentre prendeva avvio il Secondo conflitto mondiale e si preparava la Shoah, votarono gli uomini. Questo fu udito dalle labbra del cardinale vicario di Roma Francesco Marchetti Selvaggiani al momento di lasciare il conclave. Ma quale significato attribuire alla sua valutazione? E cosa sarebbe avvenuto se, per una volta, l’ultima parola l’avessero avuta gli angeli? Oggi, lasciando agli storici ogni valutazione su vicende che continuano a suscitare reazioni e sentimenti incandescenti, e mentre ancora si attende l’apertura degli archivi e il libero accesso degli studiosi a documenti che potrebbero aggiungere importanti elementi di giudizio, molti cittadini tengono viva la sensazione che gli eventi avrebbero potuto conoscere un diverso corso. Certo, in ogni caso, molti perseguitati furono tratti in salvo, ma forse altre vite ancora si sarebbero potute salvare, molti orrori si sarebbero potuti impedire. E forse l’onore e la gloria degli uomini di fede e delle istituzioni avrebbe potuto stare più in alto. La storia, evidentemente, non si può scrivere con i se. Ma i fatti che avvennero tornano oggi alla luce quando molti, da Firenze a Gerusalemme, riscoprono passaggi e sprazzi di luce nella vita di Elia Dalla Costa (che della città toscana fu arcivescovo dal 1932 al 1961) e rivolgono un pensiero, a mezzo secolo dalla scomparsa, a un uomo di spessore e di coraggio. A parlare di lui, a riportare in vivida luce la sua figura fuori dal comune, una mostra che ha appena chiuso i battenti, curata da Timothy Verdon per il museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore, l’Arcidiocesi di Firenze e la Phillips Collection di Washington. A ricordarlo, nuovi lavori di molti storici, fra i tanti Silvano Nistri con Elia Dalla Costa (Società editrice fiorentina) e Giovanni Pallanti con Elia Dalla Costa, il cardinale della carità e del coraggio (edizioni San Paolo). Ascetico, quasi mistico, ma anche vescovo con gli speroni negli anni della Guerra fredda, Elia Dalla Costa mai si dimostrò particolarmente propenso a cedere alle lusinghe e alle minacce. Al momento di eleggere un nuovo papa, nel 1939, gli storici dubitano fortemente di un suo interessamento o di un suo coinvolgimento nel tentativo di porre sul soglio la sua persona di uomo dalle idee chiare, ma di solida fede e di solida moralità. L’ipotesi era nata in seno ad ambienti dell’episcopato italiano che mal sopportavano la pressione del fascismo e si facevano interpreti della poco diplomatica linea di dura contrapposizione che papa Ratti (Pio XI) era andato maturando. Pacelli sembrò un’ipotesi preferibile a coloro (forse gli esseri umani cui si riferiva Marchetti Selvaggiani) che preferivano garantirsi migliori coperture diplomatiche. Quando, nel maggio del 1938, l’Italia ormai sull’orlo del baratro accoglieva in festa una visita di Hitler, fra Firenze e Roma si era già notata una certa sintonia. Per evitare visite sgradite, Pio XI diede ordine di chiudere i battenti ai musei Vaticani e preferì cambiare aria, andandosene per qualche giorno a Castel Gandolfo. A Firenze l’arcivescovo fu ancora più esplicito e all’entrata in città di Mussolini e del suo ospite la sede del palazzo che si affaccia sul Battistero di piazza San Giovanni fu l’unica a chiudere le imposte e a spegnere le luci. Un anno dopo, alla morte di Pio XI, emerse probabilmente che Dalla Costa e Pacelli avevano visioni troppo diverse per comprendersi e certo rappresentavano risposte profondamente differenti agli angosciosi interrogativi di quei tempi. Quando, pochi giorni dopo il conclave del 1939, il quotidiano fiorentino La Nazione pubblicò l’indiscrezione secondo cui Pio XII, forse a caccia di una solida copertura spirituale, all’indomani della sua elezione avrebbe voluto Dalla Costa a Roma come vicario, la smentita non si fece attendere. “Che dovesse andare a Roma – commenta oggi Nistri – era vero. Perché non avvenne non si è mai saputo. E’ certo che ci sarebbe andato solo per obbedienza”. C’è chi ritiene che in quel caso gli angeli si fecero sentire per il bene di molti ebrei di Firenze e di molti altri perseguitati. Quello che avvenne negli anni bui dell’occupazione nazifascista e nelle giornate drammatiche che seguirono l’8 settembre del 1943 è oggi ben noto. Dall’alto pulpito della sua autorevolezza Dalla Costa non solo si espose mobilitando la popolazione a salvare le vite dei perseguitati in pericolo (il 25 settembre 1943: “Si osservino tutte le misure dettate dal dovere e dalla prudenza, ma non rendiamoci colpevoli di rifiuti amari a chi soffre le pene inenarrabili dei senza tetto…”, il 24 dicembre 1943: “Se i tutori della legge sono contro ogni legge, l’esito sarà sempre e inevitabilmente catastrofico. Sorgente poi di odi profondi e di dissidi insanabili è lo spionaggio, anonimo o no. Arte dei vili, arma dei delinquenti, quasi sempre sfogo di rancori inveterati, lo spionaggio mette sulla stessa linea l’innocente e il colpevole, l’uomo onorato e il malvagio…”.). Ma con ogni evidenza spese anche le sue energie e aprì a suo rischio le porte del Palazzo arcivescovile per allestire una rete di soccorso la quale, secondo le testimonianze che via via si vanno raccogliendo e riordinando, vedeva fra i protagonisti personaggi come don Leto Casini, monsignor Giacomo Meneghello, il campione di ciclismo Gino Bartali e, per parte ebraica, Raffaele Cantoni, Giuliano Treves e Matilde Cassin. Oggi, a cinquant’anni dalla sua scomparsa, sono ancora numerosi a ritenere di dover la vita a Dalla Costa e ai suoi collaboratori. E c’è chi resta convinto che, presto o tardi, anche gli angeli faranno valere, con un chiaro riconoscimento, quel voto allora inascoltato.

Guido Vitale