Hanukkah – Il senso dei nostri doveri
Un problema di grande attualità che fa da sfondo agli eventi di Hanukkah è la questione dell’identità. All’epoca dei Maccabei il mondo esterno tentò di imporsi su di noi con la forza: i greci cercarono infatti di costringerci ad accettare la cultura e la religione della maggioranza a scapito della nostra. In questo impeto assimilatorio essi proibirono in particolare l’osservanza di tre mitzvot giudicate fondamentali per la nostra conservazione: il Rosh Chodesh (capo-mese), ovvero impedirono al Sinedrio di proclamare il nuovo mese in base alle testimonianze sulla luna nuova, il che ci avrebbe avrebbe in pratica privato di tutte le feste; lo Shabbat, che non dipende dal calendario mensile e, nella forma in cui noi ebrei lo osserviamo, ci preserva dall’assimilazione (in realtà, assai più di quanto noi ebrei abbiamo mantenuto lo Shabbat esso ha mantenuto noi!); la milah, che imprime nel nostro corpo in modo indelebile il segno di appartenenza alla Comunità del Patto. Constata il Ben Ish Chay di Baghdad che la durata di Hanukkah ci rammenta tutte e tre queste mitzvot: essa comincia infatti il 25 kislev, dura otto giorni come quelli della milah e comprende in ogni caso almeno uno Shabbat e il Rosh Chòdesh Tevèt. A seguito di questa difficile situazione il problema dell’identità non fu solo avvertito nei confronti del mondo esterno ma anche all’interno del popolo ebraico, che si divise in due partiti: i chassidim (pii), che decisero di rimanere fedeli alla Torah e i mityawwenim (ellenizzanti), che furono propensi a piegarsi ai costumi del nemico. Se è vero che in linea di principio di fronte a una minaccia di morte è preferibile trasgredire che lasciarsi uccidere, questa regola conosce due importanti eccezioni, che non giustificano affatto l’atteggiamento degli ellenizzanti, sia pure dinanzi al pericolo. Vi sono infatti tre divieti della Torah cui non è lecito rinunciare neppure a rischio della propria vita, ovvero l’omicidio, l’adulterio e l’idolatria. Ed era appunto l’accettazione dell’idolatria che i greci pretendevano dagli ebrei. Di più, se l’ingiunzione a trasgredire, pur riguardando altri divieti della Torah, aveva il deliberato scopo di indurci a rinnegare la nostra fede, in ogni caso diveniva preferibile il martirio alla trasgressione medesima, quale che fosse. Il problema dei due partiti si è posto nuovamente in epoca moderna, allorché apparentemente il mondo esterno non è più così aggressivo nei nostri confronti, ma presenta molti aspetti che contrastano con le tradizioni ebraiche. È possibile conciliare le due cose, essere contemporaneamente ebrei e cittadini del mondo? E se sì, come? Per prima cosa dobbiamo tener conto del significato della parola identità. Secondo il vocabolario si intende con ciò il “rapporto di un’entità con un’altra”, ovvero il “complesso di caratteri che determinano la specificità di cose o individui distinguendoli da tutti gli altri e rendendone possibile il riconoscimento” (Dizionario Italiano Sabatini- Coletti, Giunti, Firenze, 1997, p. 1143). Vero è che ciascuno di noi possiede più di una identità in funzione dell’ambiente cui ci rapportiamo e ogni identità ci richiama a doveri differenti. Sulla copertina dei nostri passaporti figurano due definizioni: Repubblica italiana e Comunità europea. Ciò significa che siamo contemporaneamente cittadini di due entità diverse. Non solo per estensione territoriale, ma anche per doveri e responsabilità. Abbiamo forse maggior familiarità con quanto ci viene richiesto in quanto cittadini italiani che non come appartenenti alla Comunità europea, forse proprio per la vastità di quest’ultima, o la sua istituzione relativamente recente, o il fatto che si esprima in lingue diverse. Ma ciò non toglie che anche a questi riguardi deteniamo una duplice identità. Quanto a doppia identità, noi ebrei siamo stati dei precursori. Allorché Avraham nostro padre si presentò agli Ittiti per acquistare una tomba per sua moglie Sarah, dichiarò di essere gher we-toshàv, “straniero e residente” allo stesso tempo (Bereshit 23,4). Sembra una contraddizione! Eppure no. Per certi versi noi ci sentiamo pienamente cittadini del paese in cui viviamo. Che cosa fece Avraham appena giunto nella terra di Canaan? Scavò pozzi nel deserto (Bereshit 26, 15 e 18). Da sempre nella storia le comunità ebraiche contribuiscono al bene della società e al progresso del vivere civile in tutti i campi del sapere e delle umane attività. Per noi ebrei pagare le tasse allo Stato è un dovere imposto dalla nostra tradizione, in base al principio dinà de-malkhutà dinà, “la Legge dello Stato è Legge”. Se usufruiamo dei servizi che lo Stato fornisce ai suoi cittadini, è giusto e doveroso che anche noi contribuiamo al loro mantenimento e funzionamento. Ma contemporaneamente possediamo un’altra identità con cui dobbiamo fare i conti: l’identità ebraica. Che cosa ci richiede quest’ultima? Possiamo riassumere questi doveri in tre ordini. Anzitutto le mitzvot. Abbiamo visto quanto grande è la mitzvah di osservare lo Shabbat. Se lo Stato ci richiede qualcosa che comporta la sua profanazione, per esempio ci impone di scrivere a scuola di Shabbat, la Torah ha la precedenza ed è nostro dovere opporci. La cosa migliore è comunque iscriverci alle scuole ebraiche. Solo se queste non esistono nella città in cui viviamo propendiamo per quelle scuole pubbliche che offrono il sabato libero, ma se neppure questo è possibile, si deve sapere che oggi in Italia vi è una legge che ci tutela e si può richiedere al rabbino una dichiarazione che ci dispensa dallo scrivere di sabato a scuola. In secondo luogo, la fede religiosa. Noi ebrei abbiamo una concezione della divinità che è diversa da quella della maggioranza dei cittadini italiani. Come insegna rav Soloveitchik, a nessuna religione si può domandare di venire a patti, o modificare il proprio modo di credere. Per questo, ben venga il dialogo fra le religioni, se questo può contribuire alla pace fra gli uomini. Ma le fedi possono incontrarsi solo sui temi sociali, di promozione del bene comune. Non sugli argomenti teologici, che caratterizzano l’identità di ciascuna, e che sono troppo intimi per poter essere dibattuti. Il terzo punto è costituito dalle aspettative. Noi ebrei abbiamo delle attese per il futuro che non necessariamente coincidono con quelle di altri. Noi ebrei crediamo nella futura venuta del Messia e speriamo di fare ritorno alla Terra dei Padri. Per questo manteniamo un legame sentimentale forte con quella terra e con i nostri fratelli che già vi risiedono, partecipiamo agli eventi che vi accadono e che ci toccano nel profondo senza che per questo venga meno la nostra fedeltà al paese in cui abitiamo. Certo, vivere con due identità non è facile. Al tempo dei Maccabei, gli ellenizzanti credettero di poter risolvere questo dilemma sbarazzandosi di una di esse – o riducendola fortemente: quella ebraica che, a giudizio del momento, costituiva un ostacolo al loro pieno inserimento nel mondo esterno. Se noi siamo qui oggi a scriverne è solo per merito di chi ha invece operato la scelta opposta, di rimanere fedeli alla Torah. Tantissimi altri, nel corso dei secoli, hanno creduto di seguire l’esempio degli ellenizzanti. Disonesti anzitutto con se stessi, molti di questi sono semplicemente usciti di testa: nessuno può pensare di rinunciare alla sua identità, quale che sia. Per vivere con due identità bisogna avere grandi capacità di mediazione fra situazioni diverse, certamente, e soprattutto di organizzazione personale in modo da non dover rinunciare a nessuno dei nostri doveri. Una grande scuola di vita!
Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, dicembre 2012