L’editto di tolleranza
Grande risonanza mediatica, com’è noto, ha avuto la recente inaugurazione delle celebrazioni per il 17° centenario del cd. Editto di Milano, del 313, da sempre definito, nei libri di storia, come Editto di Tolleranza. Mai definizione può dirsi maggiormente errata, se è vero che proprio da quel momento l’impero romano, ormai saldamente ristrutturato su basi totalitarie e orientaleggianti, inizia un massiccio e irreversibile processo di risignificazione ideologica, basato su una giustificazione teocratica del potere, e su una sua nuova rappresentazione in chiave assolutistica, monarchica e teocratica, secondo una geometrica concezione piramidale della società, dello stato e dell’universo, al cui vertice spicca, in cielo, un solo Dio e, sulla terra, come suo fedele e inflessibile servitore, un solo sovrano. È allora che nasce il concetto, tanto caro all’attuale pontificato di Roma, dell’unica verità, fuori della quale nulla può esserci, se non errore. Errore nei confronti del quale stato e Chiesa potranno assumere una molteplicità di atteggiamenti: dalla più severa e feroce repressione (verso, per esempio, le cd. ‘eresie’, ossia le interpretazioni del nuovo verbo uscite soccombenti dall’aspro scontro dottrinario ecclesiastico) alla commiserazione e al disprezzo (verso tutte le forme di pensiero dell’antico mondo classico che rifiutassero di confluire nel nuovo sistema, restando ancorate ai simboli degli dèi “falsi e bugiardi”), fino a quell’atteggiamento tutto particolare (fatto di odio, anatema, emarginazione, persecuzione, e anche, talvolta, di misericordiosa sopportazione) riservato a quel popolo cieco e ostinato che, pur meritevole di avere atteso e ricevuto il figlio di Dio, non ne aveva voluto ascoltare la parola, tanto da osare metterlo a morte. Tutto questo comincia con l’Editto di Costantino, che segna un radicale capovolgimento dell’atteggiamento dei padri della Chiesa nei confronto della libertà di religione. Se, fino a quel momento, i cristiani perseguitati si erano difesi in nome della libertà di coscienza, osservando l’assurdità di una fede religiosa estorta con la violenza (come disse Tertulliano, “non est religionis cogere religionem”, in nome della religione non si può coartare la religione), la svolta costantiniana fu salutata da quello che Arnaldo Momigliano definì “un grido stridente di odio implacabile”, il feroce libretto di Lattanzio intitolato “De mortibus persecutorum”, che indicava al mondo l’unico destino da riservare a tutti i ‘persecutori’ del passato: la morte.
Questo, e non altro, fu l’Editto di Milano, che le attuali rievocazioni, non accontentandosi di presentare con la falsa, falsissima etichetta della “tolleranza”, arrivano, addirittura, a esaltare come “l’inizio della moderna libertà di pensiero”, “la pietra miliare della società pluriconfessionale”, “il primo manifesto della laicità dello stato” e via farneticando. E sia. Mai come oggi, d’altronde, il significato della parola ‘laicità’ appare quanto meno controverso, se il Cardinale Angelo Scola, nell’inaugurare solennemente le celebrazioni, ha testualmente affermato che l’unico significato virtuoso della laicità è quello di permettere di accedere al supremo valore della fede. In questo senso, effettivamente, quello di Costantino fu un atto di laicità. Personalmente, preferisco vedere il valore della laicità rappresentato nelle nobili parole con cui il pagano Simmaco, alla fine del IV secolo, cercò di difendere la libertà di pensiero dall’inesorabile intransigenza del primate di Milano, Ambrogio: non si può abbracciare un mistero così grande, come quello della vita, attraverso un’unica strada (III Relatio, 3.8). Come spiega uno dei massimi interpreti del pensiero antico, Feice Costabile, è qui, nel “morente pensiero pagano”, e non certo in Costantino, che affonda le sue radici la “moderna concezione della libertà di coscienza”. Contro di essa, ieri come oggi, l’atteggiamento di tutti coloro che preferiscono appellarsi alla celebre proposizione di Luca (14.23), nella parabola del banchetto, brandita come una clava: “compelle eos intrare”, costringi la gente a entrare nella mia casa.
Francesco Lucrezi, storico