Una guerra incivile – Riflessioni sui risultati della commissione storica congiunta tra Italia e Germania

Non fu guerra civile. Semmai fu guerra contro i civili. E scusate se la differenza non è da poco. Non si tratta infatti di un gioco di parole bensì dello sforzo di identificare e definire una volta per sempre la natura del conflitto che ebbe come teatro di svolgimento l’Italia nel biennio 1943-1945, non più fascista ma dilacerata da un confronto armato, a più livelli, che l’attraversava da nord a sud. Tra l’8 settembre del 1943, quando ciò che restava del sistema amministrativo e civile del Regno d’Italia crollava, insieme al clamoroso dissolvimento del Regio esercito, e il 2 maggio 1945, quando la resa incondizionata delle truppe tedesche e delle milizie repubblichine sancì la conclusione del violentissimo confronto bellico, la nostra penisola conobbe uno dei periodi più cupi della sua lunga storia. La caccia all’ebreo – a partire dalla strage settembrina a Meina, passando per la razzia romana dell’ottobre successivo,continuando con gli arresti e le deportazioni sistematiche verso i campi della morte -, era solo l’epitome, ovvero il tragico suggello, di un regime di occupazione nazista che usava la pagliaccesca complicità dei collaborazionisti della cosiddetta Repubblica sociale italiana come compiaciuta foglia di fico. Molti storici hanno a lungo lavorato su questi temi, a partire Lutz Klinkhammer, che già vent’anni fa aveva pubblicato un accurato e misurato lavoro sulla «Occupazione tedesca dell’Italia» (Torino, 1993), poi seguito da una riflessione sulle «Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili 1943-44» (Bari, 1996). Alle immagini stereotipate e convenzionali che prendevano in scarsa considerazione le conseguenze, congiunte, della politica criminale del Terzo Reich verso gli italiani, del tradimento delle élite amministrative e regie e dei vertici dell’esercito nei confronti della popolazione nonché dell’ultimo sussulto, assassino, del fascismo oramai morente, si è infatti sostituita, in questi ultimi decenni, una sensibilità diversa. La storiografia ha fatto dei passi in avanti, permettendoci uno sguardo più diretto e sincero. Già era avvenuto nel merito della complessa e dolorosissima vicenda del “confine orientale”, tra Trieste e la Dalmazia, dove tra il 1943 e il 1953 si era consumata la fuga in massa della popolazione italiana e di radiceitalofona. In quel caso, a sistematizzare razionalmente i fatti (e non a generare una paludata “verità di Stato”) erano intervenuti gli esiti della riflessione congiunta prodotta dal lavoro della commissione di storici italo-sloveni, riunitisi più volte tra il 1993 e il 2000. Da tale impegno era derivato un testo di nitidezza esemplare, che cercava di comprendere, ma non certo di giustificare, la meccanica degli eventi e la pluralità dei loro protagonisti. Sforzo similare è quello che è stato compiuto da un’altra commissione congiunta, questa volta italo-tedesca, istituita nel 2008 e nominata nel marzo del 2009, composta dal già citato Lutz Klinkhammer, da Gabriele Hammermann, da Thomas Schlemmer, da Hans Woller, da Carlo Gentile,da Paolo Pezzino, da Valeria Silvestri, da Aldo Venturelli nonché presieduta pariteticamente da Mariano Gabriele, già docente di storia moderna e contemporanea e presidente della Società italiana di storia militare, e da Wolfgang Schieder, anch’egli già docente a Tubinga e a Colonia oltre che presidente della commissione scientifica dell’Istituto storico germanico di Roma. L’oggetto era, in questo caso, il rapporto tra italiani e tedeschi nel biennio dell’occupazione germanica del nostro paese. Il rapporto di circa duecento pagine che ne è derivato, firmato nel luglio di quest’anno, è articolato in cinque parti: italiani e tedeschi tra il 1943 e il 1945, la prospettiva dei soldati tedeschi, le esperienze della popolazione italiane con le forze d’occupazione tedesche, le esperienze degli internati militari italiani e, infine, le raccomandazioni della commissione. Dalla sua presentazione al pubblico, anche in questo caso in forma congiunta, alla Farnesina nei giorni scorsi, con la partecipazione del ministro degli Affari esteri italiano Giulio Terzi e del suo omologo tedesco Guido Westerwelle, è emerso il quadro della presenza nazista nel tragici diciannove mesi che portarono alla conclusione il conflitto armato che stavamo vivendo sulla nostra pelle. I riferimenti più significati che il rapporto fa sono alla coesistenza – e all’azione di reciproco rinforzo – di tre guerre: la prima di esse condotta quasi esclusivamente dai tedeschi contro gli angloamericani, che con due armate stavano risalendo, non senza difficoltà, la penisola; la seconda combattuta dalle SS, dalla Wehrmacht (l’allora esercito tedesco) e dai raccogliticci reparti del neofascismo saloino contro il partigianato, secondo metodi di particolare violenza, a tratti di efferatezza, e criteri di “scarso rispetto del diritto internazionale”; la terza, ed è forse quella di maggiore interesse per gli studiosi dell’oggi ma anche per tutta l’opinione pubblica, contro la popolazione civile italiana, laddove in molti casi il rapporto conflittuale deragliò in uno scontro al di fuori di qualsiasi legittimità, condotto dai tedeschi “con mezzi criminali”. All’interno di questo prisma c’è poco o nessun spazio per la nozione di “guerra civile” che, invece, prima la pubblicistica neofascista (e soprattutto la sua più importante firma, quella di Giorgio Pisanò) e poi in parte quella liberale (con Renzo De Felice e poi Ernesto Galli della Loggia), la cattolica (Pietro Scoppola), l’azionista (Giorgio Bocca e, soprattutto, Claudio Pavone, che vi ha dedicato un fondamentale libro intitolato per l’appunto Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza) e quella di taglio più marcatamente revisionista (tra tutti Giorgio Pansa, che ha ottenuto un riscontro di pubblico, in questi ultimi dieci anni, tale da fare pensare che abbia costruito una vera e propria ipoteca sul sentire comune dei più) hanno invece assunto, sia pure da prospettive e con obiettivi tra di loro anche molto differenti. Non fu guerra civile ma guerra contro i civili. Il rapporto si incentra, tra le altre cose, sul collaborazionismo repubblichino e sulla compromissione dei suoi esponenti, come delle sue milizie armate (che non avevano lo status di esercito), nella durissima lotta antipartigiana così come nellefunzioni esercitate dall’occupante nel quadro delle sue prerogative di dominio. L’immagine che ne esce di ciò che rimaneva dell’allora fascismo è senza attenuanti, se mai ce ne fosse stato un qualche bisogno o una residua opportunità. Ed è anche in ragione di questo che tale stato di cose che viene fagocitato completamente qualsiasi rimando alla nozione di “guerra civile”, rendendola per più aspetti scarsamente funzionale all’interpretazione dei fatti accaduti tra il 1943 e il 1945. Se una spaccatura si misurò in Italia, in quel biennio terribile, questa non fu tra due tronconi della società nazionale ideologicamente contrapposti, l’uno a favore della continuazione della guerra nell’Asse germano-italico e l’altro diversamente disposto. Semmai si consumò una divisione tra la popolazione di un paese che era divenuta inerme terra di dominio tedesco, da un lato, e i serventi fascisti dall’altro, questi ultimi supinamente allineati alle posizioni più odiose del Terzo Reich. Anche da questa fondamentale considerazione deriva quindi l’inaccettabilità, non solo morale ma anche funzionale, della parificabilità tra due parti, da intendersi altrimenti come dotate di pari legittimità, perché contrapposte e combattenti sul medesimo piano: quella nazifascista e quella partigiana e antifascista. Tale tipo di perdurante approccio, fortemente ideologico, volto oggi a denunciare l’antifascismo come un elemento da superare proprio perché strettamente legato alle passioni di un tempo che non c’è più, e quindi indirizzato a perpetuare la trascorsa “divisione del paese”, omette completamente di indicare gli elementi fattuali dell’occupazione tedesca. Il rapporto della commissione si sofferma invece ripetutamente su di essi, con un encomiabile sforzo di equilibrio, non intendendo assolvere ad un ruolo requisitorioma cercando di proseguire l’indagine storica, costruendo quindi nessi di significato. Più che un elenco fine a sé di fatti e misfatti si tratta del tentativo di indagare, congiuntamente, sulle percezioni tedesche dell’Italia di allora, sull’esperienza che i militari germanici, inviati nel nostro paese, fecero di esso, sui rapporti che si stabilirono con la popolazione civile. Il rapporto non rivela nulla di assolutamente nuovo, non intendendo assecondare la vulgata sensazionalista che è invece tipica dei revisionismo. Buona parte delle fonti a disposizione ci permettono di avere un quadro sufficientemente chiaro di quel che fu, degli scenari così come dei protagonisti. La linea di divisione tra vittime e carnefici è quindi chiara e non ha la matrice semplificatoria dell’appartenenza nazionale (i tedeschi tutti cattivi e gli italiani immensamente buoni) bensì quella della responsabilità politica. Non di meno, ne emerge anche la cornice di una guerra criminale, tale perché condotta soprattutto contro un bersaglio indifeso, i civili. In questo caso noi italiani. Una considerazione a latere si impone, quindi. Il tentativo, sospeso tra un veteronazionalismo populistico d’accatto e un revanscismo fascistoide, di intorbidare il passato mettendo tutti sul medesimo piano, non ha nessun fondamento storico né, tanto meno, scientifico. Ciò va detto non tanto per tutelare le prerogative particolaristiche di una disciplina, la ricerca storica, che spesso ripiega su di sé, senza parlare al grande pubblico, ma per iniettare nel dibattito collettivo elementi di giudizio fondati. Cosa che necessita tanto di più dal momento che il revisionismo di bassa lega, quello che si fonda sul pregiudizio, oggi trova un terreno di saldatura in un sentimento antitedesco che nulla ha a che fare con la realtà delle cose. L’ostilità nei confronti della Germania, infatti, corre sui binari non del severo metro di valutazione del suo passato quanto su un’ambigua avversione per il suo presente di paese forte nel consesso europeo. Il lavoro della commissione congiunta ci segnala non solo come si possa fare luce sui trascorsi senza che ciò si traduca da subito in una sorta di funzione tribunalizia, con accuse a ripetizione e difese sospette, le une e le altre destinate ad approfondire il solco e non a colmarlo, ma su quali siano i supporti per una storia realmente condivisa, basata non su improbabili “pacificazioni” bensì su una riconciliazione che parte dal riconoscimento delle responsabilità.

Claudio Vercelli