vite…

Wa-ychì è una Parashah breve, che narra soprattutto degli ultimi sprazzi di vita di due personaggi: Ya‘aqòv e Yosèf. Tuttavia, benché tratti principalmente della morte di queste persone, comincia con l’espressione “Wa-ychì Ya‘aqòv”, “visse Ya‘aqòv”. Da qui i nostri Maestri sono arrivati a sostenere che “Ya‘aqòv avìnu lo’ meth”, “il nostro patriarca Ya‘aqòv non è morto”. Ya‘qòv non ha mai avuto una vita facile. Dalla lotta ancora nel grembo materno, all’odio del fratello, ai patimenti ed agli imbrogli di Lavàn, alla morte di Rachèl, l’ingiurioso atto di Re’uvèn, il lutto per la presunta morte di Yosèf, la carestia, il lasciare la terra per recarsi in Egitto, è stato tutto un continuo di ansie, di dolori, di incertezza. Ciò nonostante, in nessun momento ha smesso di avere fiducia in Ha-qadòsh Barùkh Hu’ e di inculcarla nei suoi discendenti. Per questo motivo i Maestri affermano che “Tzaddiqìm be-mithathàm qeru’ìm chayìm”, “i giusti, anche dopo la morte sono da considerare vivi”: non solo il loro messaggio, il loro esempio ed il loro insegnamento dura ben oltre la loro vita terrena, ma anche questa stessa vita terrena, grazie alla loro fiducia nella giustizia e nella protezione divina, dura a lungo e si conclude, come indica la Torah, “in sazietà di giorni”, ossia avendo goduto di ogni aspetto in modo pieno e completo.

Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana