La cerniera dello Yemen

Scomparso dalla scena mediatica l’Afghanistan, letteralmente risucchiato dallo stallo politico nel quale si trova da diversi anni, dinanzi all’effetto congiunto dell’inefficacia dell’azione militare americana ed europea, rivelatasi inadeguata rispetto agli equilibri di lungo periodo del paese, e del prevedibile consolidamento talebano nella aree rurali, altri scenari si sono aperti all’attenzione internazionale. Non sono, né plausibilmente saranno, luoghi di intervento, più o meno “democratico”, delle forze armate occidentali ma già da almeno alcuni anni costituiscono il perno della presenza islamista, ovvero quella più radicale. Tra di essi, in quanto paese caratterizzato dall’instabilità permanente e cerniera, malgrado di mezzo ci sia il mare, tra Asia e Africa, così come tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, si pone in primo piano lo Yemen. Ufficialmente repubblica presidenziale, si è unificato nel 1990, dove vicissitudini e precedenti travagliatissimi. Va detto che anche in questo caso, come in altre aree della regione, l’impronta coloniale britannica, una presenza durata fino al 1967, ha lasciato il suo segno, generando più problemi di quanti non si sia adoperata a risolverne. La regione meridionale, con la capitale Aden e le province di Jaar e Abyan, da sempre esercitano un ruolo strategico, costituendo la punta di lancia sui commerci marittimi del meridione asiatico. Dallo Yemen, poi, non è troppo difficile raggiungere quello che resta della Somalia, terra di scorrerie delle milizie di osservanza islamista e focolaio, insieme al Mali, delle più recenti (ma, in tutta probabilità, anche delle future) guerre civili del continente. Non è peraltro un caso se il Golfo d’Aden sia segnato su tutte le cartine dei naviganti con la matita rossa, essendo luogo non solo di traffici illegali di ogni genere ma anche di una fiorente pirateria. Di fatto le sorti del paese, dal 1978, sono state rette dalla monocrazia autoritaria di Ali Abd Allah Saleh, padre-padrone dello Stato, il quale ha ceduto formalmente le redini del potere sono pochi mesi fa al suo vice, Abed Rabbo Mansour Hadi, quest’ultimo a capo di un governo di «riconciliazione nazionale», destinato nelle intenzioni a durare fino al febbraio del 2014, quando dovrebbero tenersi le elezioni politiche e quelle presidenziali. Da quando lo Yemen ha assunto l’attuale fisionomia, con la fine degli anni Sessanta, il Congresso generale del popolo, il partito di Saleh, è la forza dominante. Il pluripartitismo esiste sulla carta, non certo nei fatti. Diversamente dai dispotismi comunisti, il predominio di un partito su qualsiasi altra organizzazione politica serve in questo caso a surrogare l’assenza di strutture pubbliche capaci di fare fronti ai bisogni della collettività. Mentre nei regime dell’Est il partito si affiancava, in funzione competitiva, alle amministrazioni statali qui, invece, le sostituisce, essendo esse inesistenti o insufficienti. Naturalmente, la radice della recente cessione di sovranità esercitata dal dittatore non è stato un atto di autonoma volontà ma il risultato delle pressioni dal basso, lievitate con la «primavera araba» yemenita, iniziata nel gennaio del 2011 e non ancora conclusasi. La giurisdizione dello Stato e dell’amministrazione pubblica sui 528mila chilometri quadrati che compongono il paese, a fronte di una popolazione che supera i 23 milioni e mezzo, è poco più di una chimera. Al modello gestionale e organizzativo del potere importato dall’esperienza occidentale si sovrappone e si contrappone, il più delle volte imponendosi, la preesistente organizzazione clanica, che nei venti governatorati e nella municipalità metropolitana di Sana’a ha la meglio su qualsiasi tentativo di uniformare l’amministrazione e la giurisdizione. Il controllo del territorio, infatti, è esercitato dalle emanazioni militarizzate di questi gruppi che, sovente, hanno anche il compito di garantire qualche forma di sussistenza per la popolazione. Lo sforzo di Saleh, nei suoi quasi trentacinque anni di dominio, è stato sempre quello di mediare tra le spinte e le controspinte che gli interessi contrapposti dei diversi aggregati clanici hanno espresso nel corso del tempo. Non diversamente, per certi aspetti, da un Gheddafi. Gli è riuscito, usando spesso il pugno di ferro, finché ha avuto a disposizione le risorse per farlo. In fondo, a ben pensarci, si tratta di un caso di sorprendente longevità politica. Abitato quasi esclusivamente da musulmani sunniti, lo Yemen ha la prerogativa, ad oggi ineguagliata, di essere il paese dove si diventa maggiorenni a quindici anni. Abituale, in molte famiglie, è il possesso delle armi: insieme allo jambiya, il tradizionale pugnale ricurvo, capita che ci sia chi si affidi anche ai kalashnikov. La diffusione delle armi da taglio e da fuoco è pari solo a quella del qat, una foglia sovente masticata con gusto poiché contiene un alcaloide che stimola stati di ebbrezza ed euforia. Il ricorso alla sostanza psicotropa è peraltro qualcosa di ben diverso da una pratica individuale e solitaria, essendo semmai una sorta di diffusa convenzione sociale. L’insediamento ebraico, di antichissima radice, si è definitivamente dissolto nel 2009, quando anche gli ultimi componenti della locale comunità hanno dovuto abbandonare la terra d’origine, incalzati dalle ripetute minacce provenienti dalle cellule del radicalismo islamico. Lo Yemen, infatti, è luogo di fondamentalismo. Come capita in questi casi, poiché il binomio tra miseria e radicalismo è piuttosto diffuso, il paese è il più povero tra gli Stati arabi, collocato dalle Nazioni Unite al centocinquantaquattresimo posto sui 176 Stati del nostro pianeta censiti e monitorati dallo United Nations Development Programme. Il 41,8 per cento della popolazione nel 2007 risultava al di sotto della soglia di povertà nazionale, vivendo con meno di due dollari al giorno. Nel 2012 tale percentuale è salita al 54,5 per cento. In compenso il 4 per cento è costituito da milionari, che detengono la quasi totalità delle risorse economiche nazionali. Metà degli yemeniti è impiegata in lavori per una agricoltura modesta, praticata su poche terre, in non più del 3 per cento dell’intero territorio nazionale. Peraltro il 76 per cento di essi vive in aree rurali, dove la povertà è la condizione comune per tre quarti degli individui. L’aspettativa di durata media della vita non supera i sessant’anni, mentre i tassi di analfabetismo e di semianalfabetismo riguardano circa il 45 per cento degli individui, toccando nel caso femminile il 61,6 per cento. Fattori fondamentali nella debolezza strutturale dell’economia sono l’endemica corruzione, la mancanza di trasparenza negli atti pubblici e l’impedimento alla partecipazione nei processi decisionali della collettività, la subalternità della popolazione femminile e lo sfruttamento di quella infantile, la disoccupazione giovanile, pari a più della metà della fascia di individui in età lavorativa, a fronte di un tasso di crescita della popolazione intorno al 3 per cento annuo (il dato in questo caso risale al 2005). Nel 2011 il Pil è crollato del 10,6 per cento, a causa dell’instabilità interna. In questo quadro angosciante e fosco il fondamentalismo, che già aveva concorso a disintegrare a suo tempo l’unità politica della Somalia, è entrato prepotentemente in scena. Precedentemente, nel 2000, nel porto di Aden, una barca esplosiva, armata da Al Qaeda, aveva colpito l’incrociatore americano Cole, uccidendo diciassette militari. Nel corso dei dieci anni successivi l’organizzazione che è stata di Bin Laden, e che oggi ha trovato altri patrocinatori, si è ulteriormente radicata. Va precisato che usando la parola fondamentalismo è bene avere chiaro il fatto che ci si trova dinanzi ad una pluralità di forze, quasi sempre concorrenti tra di loro, e quindi anche conflittuali, pertanto in lotta non tanto e non solo contro gli autocratici poteri costituiti ma anche al proprio interno. La popolazione costituisce la prima vittima di questa guerra, dove nessuno vince perché la vera posta in gioco è la sua perpetuazione ad infinito. Nella provincia meridionale di Jaar i qaedisti di Ansar al Shariah (letteralmente i «partigiani della legge islamica»), che hanno da tempo eletto il territorio yemenita a loro patria adottiva, si sono adoperati per dare vita ad un effimero emirato islamista. Hanno assoldato un buon numero di seguaci tra i maschi, soprattutto adolescenti, che si sono poi impegnati nei combattimenti e nell’imposizione, tra i civili, della «legge del Profeta». La leadership delle formazioni radicali – tuttavia – è sempre rimasta in mano ad elementi stranieri, parte integrante del network terroristico che dagli anni Novanta, prima con i cascami della lunghissima guerra civile in Algeria poi con quella bosniaca, si è costituito come ossatura permanente. Questi signori della guerra sono il prodotto della “globalizzazione della violenza e del terrore”, in grado di intervenire con celerità e profitto in ogni dove si creino opportunità di usufrutto economico e politico. La reazione militare del governo di Sana’a non si è peraltro fatta attendere e ha portato ad un duro confronto sul campo, con il drammatico corollario di distruzioni e lutti. L’emirato non ha avuto successo, raccogliendo semmai l’opposizione della popolazione, ma le ferite imposte dalla guerra intestina hanno segnato il destino dei civili. La presenza salafita e radicale non si riduce tuttavia a quella di osservanza alqaedista. Nello Yemen del nord, e soprattutto nella provincia di Sa’da, l’Iran è presente sotto le mentite spoglie di soccorso umanitario e sanitario. In realtà, a dare credito alle stesse autorità yemenite, attraverso questo presidio, sempre meno tollerato da Sana’a, Teheran starebbe cercando di alimentare una rete sciita in grado si supportare le attività separatiste del movimento Houthis, avverso ai sunniti. L’obiettivo, neanche troppo difficile da immaginare, è quello di secessionare le provincie settentrionali dal corpo del paese. Al di là dei singoli progetti politici, e dell’eterno conflitto tra gruppi rivali, rimane comunque il fatto che il paese è divenuto uno dei luoghi privilegiati del peggior estremismo. Un focolaio perennemente infetto, al quale gli Stati Uniti hanno fino ad oggi risposto fornendo sostegno militare alle autorità civili ben sapendo, tuttavia, che la legittimazione di queste ultime è per più aspetti prossima allo zero.

Claudio Vercelli