Qui Milano – I favolosi viaggi di rav Chidà

“Uno straordinario atto di amore per l’ebraismo”. Così il pastore valdese Gioacchino Pistone ha descritto le 600 pagine del volume Ma’agal Tov (Il buon viaggio), Salomone Belforte editore. “Uno dei primi dieci rabbini di ogni epoca, l’essenza dell’ebraismo sefardita” la definizione del suo autore rav Chayim Yossef David Azulay (Chidà) (Gerusalemme 1724 – Livorno 1806), fornita dal rabbino capo di Milano Alfonso Arbib. Certo è che la presentazione del diario del Chidà, per la prima volta tradotto in italiano dal rav Alberto Somekh, che ha anche curato il volume, ha conquistato il folto pubblico raccoltosi alla Libreria Claudiana di Milano. I relatori (oltre al pastore e ai due rabbini, presente anche Anna Tedesco, curatrice degli indici, e Guido Guastalla della casa editrice) hanno descritto con passione la figura del Chidà, il suo essere studioso e pensatore, straordinario viaggiatore non soltanto dell’Europa settecentesca, ma anche del mondo delle idee. I suoi diari rappresentano la cronaca dei due lunghi viaggi che il rabbino compì allo scopo di raccogliere fondi per la yeshivah di Chebron, e sono ricchi di spunti profondi e curiosi allo stesso tempo, oltre che infarciti di citazioni bibliche, come ha tenuto a sottolineare il rav Somekh. Uno straordinario affresco della vita in Europa e nelle comunità ebraiche più di due secoli fa.
Di seguito l’articolo dedicato a Ma’agal Tov sul numero di Pagine Ebraiche attualmente in distribuzione.

Da Livorno all’Europa. I meravigliosi viaggi di rav Chidà

E’ grazie al libro Ma’agal Tov – Il buon viaggio di rav Chayim Yossef David Azulay (Chidà) di Livorno, (Introduzione e note di Rav Alberto Moshé Somekh, Belforte Editore) che ho fatto la conoscenza di Chidà. Un rabbino eminente nel campo degli studi talmudici, dal genio precoce e prolifico, autore appunto di uno straordinario diario di viaggio, anzi di due viaggi, compiuti a distanza di circa vent’anni attraverso l’Europa. Chidà era nato a Gerusalemme nel 1724 e nel 1753, a 31 anni, dopo una giovinezza di studio, viene inviato in missione in Europa per raccogliere fondi per la yeshivah di Hebron. Si tratta di un viaggio lunghissimo, che dura fino all’aprile del 1758, quando rav Azulay fa ritorno a Gerusalemme. Cinque anni dopo, nel 1763, riparte, ma questa volta è quasi una falsa partenza: viene incaricato, con altri, di comporre una controversia fra rabbini e leader comunitari in Turchia. Parte e giunge al Cairo, dove viene a sapere che nel frattempo i secondi avevano prevalso e che quindi la sua missione era abortita sul nascere. Si ferma così al Cairo, dove viene nominato rabbino capo e dove soggiornerà per qualche anno, prima di ritornare a Hebron. Nel 1772 intraprende un secondo viaggio, destinazione Europa e con lo stesso fine: raccogliere fondi. Anche questo viaggio risulterà lunghissimo: terminerà solo il 20 settembre del 1778 a Livorno. Qui rav Azulay decide di fermarsi e dove per altro risiedeva già gran parte della sua famiglia: un figlia sposata, almeno due figli maschi che facevano base a Livorno, ma erano anch’essi sempre in viaggio. Purtroppo non si dice quale mestiere svolgessero, ma viste le località dalle quali inviavano lettere al padre, molte in Nordafrica, si suppone che facessero i mercanti. A Livorno Azulay prende dunque dimora – lo si troverà negli elenchi del censimento del 1784, dove è registrato come nucleo famigliare singolo – e passerà tutta la vecchiaia in modo operoso, studiando e scrivendo. Morirà, sempre a Livorno, nel 1806. Ma’agal Tov – Il buon viaggio è appunto il resoconto di queste lunghe esperienze di viaggio. Si tratta di un testo corposo, che occupa più di cinquecento pagine e che oggi, per la prima volta, appare in traduzione italiana. La prima cosa che dobbiamo dire è che documenti come questi sono assolutamente eccezionali. In realtà, il Settecento è il secolo della letteratura di viaggio. L’Europa pullula di viaggiatori, non più nobili come quelli che a partire dal Cinquecento facevano i cosiddetti Grand Tour, ma borghesi, intellettuali, tecnici, uomini politici che si affiancano ai tradizionali protagonisti del viaggio, quelli di sempre, e cioè i mercanti, e che lasciano un resoconto scritto delle loro impressioni. Di religiosi che compievano viaggi, e che soprattutto ne facevano poi relazione, non ce n’erano però molti. In particolare, racconti di viaggio di rabbini non mi pare ne siano mai stati pubblicati, fatta appunto eccezione per questo Ma’agal Tov. Quindi ci troviamo di fronte a un testo assolutamente eccezionale, per non dire unico. Per questo Ma’agal Tov prende degnamente un posto d’onore non tanto nella letteratura di viaggio, perché il libro è molto di più di una cronaca di viaggio, ma nella sequenza di libri di memoria e di racconti di esperienze vissute scritti da ebrei. Fra di essi ricordiamo il viaggio di Beniamin da Tudela, scritto nel Duecento, l’autobiografia di Leone da Modena, scritto nel Seicento o le memorie di Glückel Von Hameln, che costituiscono tra l’altro una straordinaria testimonianza di vita al femminile, non solo di una ebrea, ma di una donna europea dell’età moderna. Dunque, anche Il buon viaggio di rav Azulay si inserisce in questa collana preziosa ed è un documento eccezionale. Si tratta di un testo che non solo ci racconta molte cose e ci trasmette molte impressioni, ma ci illumina in merito a molte realtà che prima ci erano del tutto ignote. Quali? Proviamo a vederle insieme. Con una premessa doverosa: Chaim Yossef venne chiamato a svolgere un lavoro quanto mai ingrato, quello di collettore di denaro, mentre il suo cuore batteva in tutt’altra direzione. Chidà era uno studioso che, se libero di decidere, avrebbe passato la vita in mezzo ai libri. Lo studio è la sua grande passione: lo vediamo dall’entusiasmo con il quale, ogni qual volta si trova nell’occasione, si ferma in una sinagoga, in una casa privata, in una biblioteca, in un museo, a guardare i libri, prenderli in mano, sfogliarli, leggerne dei brani, osservarne la fattura. Quella è la prima cosa che lo attira ovunque egli vada, che gli fa dimenticare qualsiasi altra cosa, spesso anche il compito che è tenuto a svolgere. Uno studioso che viene dunque chiamato a svolgere un compito durissimo e ingrato, lontano dalle sue aspirazioni più profonde. Ma c’è un ulteriore elemento caratteriale che va tenuto in debito conto e che ci consente di capire fino il fondo tanto il personaggio quanto il racconto che ci fa delle sue vicende. Rav Azulay è un uomo piissimo, uno stretto osservante della Torah e dei suoi precetti. E’ un uomo di fede profondissima che sacrifica spontaneamente qualsiasi cosa pur di vivere nel modo più vicino all’ideale di vita ebraica che coltivava. Quindi, se non fida del coltello dello shokhet di turno è capace di saltare il pranzo o accontentarsi di poco. Se può pregare per gli altri, si presta sempre molto generosamente. Un ultimo tratto, che mi sembra si coniughi bene con questo atteggiamento da sant’uomo, è il suo candore, che talvolta sembra quasi quello di un bambino. Rav Azulay non si schermisce quanto si tratta di manifestare il suo stupore di fronte all’inconsueto, all’esotico, al bello, si tratti di un elefante, di un giardino botanico, della reggia di Versailles che gli capita di visitare con molti dignitari e diplomatici, o delle macchine mirabolanti che vede in azione in Italia. Certo questo candore rischia ogni tanto di fargli accettare come plausibili notizie poco verosimili ai nostri occhi, quelle veicolate dal sentito dire, dalle dicerie, come la presunta stima delle 30 mila prostitute parigine mentre la città contava allora circa 40 mila abitanti oppure del mezzo milione di abitanti della Savoia, che ne ospitava al tempo poche decine di migliaia. Ogni tanto crede a quanto gli viene raccontato solo perché questo va a tutto vantaggio e onore della persona. Insomma, per carattere, disposizione d’animo, interessi, sembra la persona meno adatta ad andare a spillare quattrini in giro per tutta Europa. Eppure ci andò per ben due volte, a costo di pesanti sacrifici personali in termini di salute, di denaro, di fatiche, di tribolazioni e solitudine, di mancanza di affetti – la moglie gli morirà lontana e lui lo saprà solo sette mesi dopo, per lettera. Eppure accettò il sacrificio proprio per quella fede profonda che lo animava, perché convinto della giustezza di quella missione e della assoluta necessità di preservare e mantenere le scuole che dovevano trasmettere gli insegnamenti della Torah. Fu un sacrificio pesante. Soprattutto in termini psicologici. Persona timida, ma conscia del suo valore intellettuale, si troverà a lottare per anni contro la diffidenza e contro la parsimonia delle comunità di mezzo continente, subendo continue umiliazioni, alle quali reagiva come poteva. Questa condizione, quella di chiedere umilmente, di prostrarsi di continuo, e di sentirsi spesso maltrattato quando addirittura non creduto, come gli capitò spesso nelle comunità degli Stati tedeschi durante il primo viaggio, si tramuterà alla lunga in una forma di depressione che lo minerà nel corpo e nell’anima. A questo si aggiungono le fatiche e le peripezie del viaggio. Da questo libro capiamo perfettamente che cosa volesse dire viaggiare un tempo: i disagi immensi, i malanni, le angherie dei bettolieri che presentano conti da strozzini, gli imprevisti – carrozze nel fiume, ruote che si rompono e poi mare grosso, predoni del deserto, doganieri occhiuti e “malvagi”, mance da allungare in continuazione per ammorbidire i controllori, cibi spesso non buoni e raramente kasher e maltempo, fatica, solitudine. Non stupisce che vi siano molte pagine in cui lo scoramento prevale, anche se questo sentimento non si avvicina mai, neppur lontanamente, alla resa, all’abbandono. E comunque, veniamo a seguire l’itinerario di un viaggio assolutamente vorticoso, che tocca letteralmente centinaia di tappe, spesso percorse in un brevissimo lasso di tempo; e tutto per raggranellare dei soldi che il Chidà aveva costantemente paura di perdere, o di farsi rubare, o di vedersi requisire dai doganieri, come accade quando sbarca sulle coste dell’Inghilterra. Leggere questo libro equivale insomma a precipitare nella durezza del mondo del passato, e soprattutto nella fatica del vivere dei nostri antenati. Ma il libro ci racconta – e forse questo è il tratto di maggior novità – una miriade di aspetti della vita delle comunità ebraiche europee del Settecento. I loro diversi usi, le loro diverse tradizioni, il rispetto più o meno stretto delle regole, il maggior o minor grado di ricchezza, il tasso di litigiosità, altissimo, i tentativi di composizione, a cui si dedica spesso in prima persona, i conflitti fra coniugi, gli arbitrati, l’alternanza fra avarizia e generosità. Ne fanno fede esemplare le note su Torino, una comunità dignitosa quanto povera, che non può versare granché in elemosina e che è specchio di una città la cui biblioteca reale, che rav Azulay visita dopo aver reso omaggio al re, al confronto con quella di Parigi, gli sembra “paragonabile ad una scimmia rispetto a un uomo”. E poi, naturalmente, troviamo molte informazioni sul grado di integrazione delle varie comunità nella società più ampia, sui rapporti degli ebrei con i gentili, che nel complesso della narrazione appaiono molto più amichevoli di quanto non si possa credere, anche se le manifestazioni di dileggio e di scherno certo non mancavano, e venivano per lo più dal popolo basso, piuttosto che dai ceti aristocratici, mercantili o intellettuali. Si tratta di un panorama di vita ebraica tanto più prezioso in quanto viene descritto dall’interno e da occhi compassionevoli e non ostili. C’è poi tutta una parte, straordinariamente ricca, che riguarda l’esegesi biblica, il commento e l’interpretazione di passi e di episodi della Torah, il confronto fra interpretazioni talora divergenti di commentari, la discussione sui rituali e sulle regole. Insomma, il sale della cultura e della professione rabbinica nella quale il Chidà sembra primeggiare: lì chiaramente, sul piano intellettuale, stava la sua rivincita su tutte le umiliazioni che aveva dovuto subire. In questo libro c’è molto altro, ma vorrei chiudere con due brevi considerazioni che attengono a questioni di storia generale e di metodo, alle quali sono avvezzo per deformazione professionale. L’occhio di un ebreo, e in particolare di un rabbino, nel registrare certe cose piuttosto che altre, era diverso da quello di un cristiano o di un senza fede? Credo sia diverso, perché la percezione è figlia della sensibilità, e la sensibilità è a sua volta figlia della cultura. Ma in che modo, nel caso specifico, il suo era uno sguardo diverso?

Luciano Allegra, Pagine Ebraiche, gennaio 2013