Qui Roma – Una cosa da niente

Dodici racconti uniti da un concetto comune: “indifferenza”. L’indifferenza che accompagnò l’emanazione delle leggi razziste del ’38 all’indomani delle quali cittadini dello Stato persero i diritti civili, padri di famiglia il lavoro, giovani studenti la possibilità di andare a scuola, singoli divieti che all’occhio superficiale e disattento potrebbero anche sembrare banali, ma con delle ripercussioni catastrofiche nella vita delle persone che li subirono e che vengono esaminati – ciascuno in un racconto – nel libro di Mario Pacifici “Una cosa da niente”. Del volume si è discusso ieri pomeriggio alla sala Margana con il rabbino capo rav Riccardo Di Segni; Donatella Di Cesare, professore ordinario di Filosofia teoretica della Sapienza di Roma; lo storico Marcello Pezzetti, direttore scientifico della Fondazione Museo della Shoah; il professor Lamberto Perugia, ortopedico; Renato Caviglia, medico gastroenterologo intervenuto in rappresentanza della sezione romana dell’Associazione Medica Ebraica (che ha promosso l’evento assieme al Centro di Cultura ebraica, il Benè Berith, l’Ospedale Israelitico e la Libreria ebraica Kiriat Sefer) e l’artista Georges de Canino che ha dato lettura di alcuni brani del libro. Moderatore dell’incontro Federico Ascarelli. Fra il numeroso pubblico intervenuto in sala anche il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici.
Già nell’introduzione Pacifici ci ricorda il trauma subito dagli ebrei italiani quando l’emarginazione razziale divenne Legge, quello che fu più assurdo – ha sottolineato l’autore – fu la reazione dell’intera società italiana. “Ci fu soltanto silenzio”.
“Ho ascoltato un’intervista a Vittorio Emanuele – spiega Pacifici – Il capo della dinastia dei Savoia riteneva di non doversi scusare con la comunità ebraica per le leggi razziste firmate dal nonno. Le ragioni? All’epoca lui era solo un bambino e poi quelle leggi erano state poca cosa. Nessuno aveva torto un capello agli ebrei in forza di quelle leggi. Ne fui indignato ma mi resi conto che l’erede dei Savoia non era il solo incapace di comprendere la tragedia che quelle leggi rappresentarono per gli ebrei e di cogliere la valenza propedeutica che esse ebbero per la successiva deportazione e lo sterminio. Fu a quel punto che cominciai a scrivere i racconti”. A spingere Pacifici è quindi questo vuoto di consapevolezza riguardo alle leggi razziste, il fatto che la gente non avesse una precisa consapevolezza del dramma che hanno procurato all’interno della comunità ebraica, un racconto “dal didentro” per esprimere come sono state vissute dai diretti interessati.
“Ho pensato che il format del racconto fosse il più indicato a trasmettere ai lettori la consapevolezza del dramma economico morale e sociale in cui le leggi precipitarono la minoranza ebraica in Italia – prosegue – e anche quello più indicato a mettere in luce la indifferenza con cui le leggi furono accolte dalla società italiana, spesso più orientata al meschino tornaconto che alla solidarietà. Un romanzo non mi avrebbe consentito di presentare con altrettanta forza i diversi aspetti delle leggi”.
Mario, quale è il messaggio che vorresti fosse trasmesso attraverso la tua penna?, gli chiediamo. “La consapevolezza. Gli italiani, a differenza di quanto faticosamente hanno fatto i tedeschi, non hanno mai affrontato il tema della Shoah e della discriminazione con il coraggio e l’onestà necessari. Le leggi sono state attribuite al Regime e questo ha consentito una plenaria assoluzione della società nel suo complesso. I miei racconti cercano di ristabilire la verità storica e di offrire una chiave di lettura più onesta. Per questo vorrei che entrassero nelle scuole e raggiungessero il mondo dei giovani, dei nostri figli dei nostri nipoti. Solo loro possono scrivere una nuova pagina di comprensione fra le diverse componenti della società, costruendo relazioni basate sul rispetto, sulla reciproca comprensione e sul rifiuto di pregiudizi e stereotipi.

Lucilla Efrati twitter @lefratimoked

(14 gennaio 2013)