Famiglie
Il problema del matrimonio tra omosessuali, e segnatamente della possibilità che le coppie dello stesso sesso possano ricevere figli in adozione, è tornato prepotentemente, in questi giorni, al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica in Francia e in Italia, a seguito, rispettivamente, dell’annunciata introduzione, da parte del governo di Hollande, di una riforma normativa in tale direzione, e di una sentenza della nostra suprema Corte di Cassazione (la quale, relativamente a una specifica situazione di contenzioso tra genitori, afferma che, in linea di principio, la resistenza contro l’affidamento dei minori a coppie dello stesso sesso rappresenterebbe una forma di ingiustificato pregiudizio, che, in quanto tale, non può essere avallato e sostenuto sul piano giuridico). I commenti e le prese di posizione, ovviamente, si sono moltiplicati, riproponendo la consueta spaccatura tra fronti opposti, variamente schierati a difesa dei valori della famiglia ‘tradizionale’ (che sarebbero minacciati dal riconoscimento, a vario titolo, di altre forme di unione) o a favore dell’estensione dei diritti civili a categorie di persone che risulterebbero ancora, in vario modo, discriminate. Tale dibattito ha avuto un’importante ricaduta anche sul terreno delle riflessioni in materia di etica ebraica, a seguito di un documento elaborato dal Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim, che ha avuto un’ampia risonanza mediatica – è stato ripreso anche dall’Osservatore Romano -, dando avvio a un’ampia e articolata discussione, ripresa anche da questo portale. Il Rav, partendo dall’importanza di una costruzione della società su basi etiche, denuncia una presunta deriva edonista e utilitaristica che corroderebbe il mondo d’oggi, nel quale l’imperativo dominante sarebbe quello di riuscire, in qualche modo, a “ottenere ciò che si desidera”. “Nell’ambito pubblico – afferma Bernheim – i due termini che dominano il discorso contemporaneo sono l’autonomia e i diritti, che si conformano con lo spirito del mercato, privilegiando la scelta e scartando l’ipotesi secondo la quale esisterebbero dei fondamenti oggettivi che consentono di effettuare una scelta piuttosto che un’altra”. Nel caso specifico dell’adozione dei bambini da parte di coppie omosessuali, in particolare, esisterebbe “il rischio irreversibile di una confusione delle genealogie”, con l’annullamento dell’idea di paternità e maternità (sostituite da una più generica parentalità), e lo spostamento del bambino da soggetto a oggetto “al quale ognuno avrebbe diritto”. Il tutto con un concreto pericolo per lo stesso istituto del matrimonio – la cui legittimità, “quale istituzione riconosciuta dalla società come buona per il suo equilibrio e la sua perennità”, verrebbe fatalmente cancellata – e in nome di “una permissività molto forte che deriva dalla mancanza di coraggio, dall’incertezza e dall’indifferenza”.
Innanzi alle parole di un illustre e venerabile rabbino, mi pongo sempre in posizione di attenzione, ascolto, umiltà. Se queste parole riguardano l’interpretazione di qualche aspetto della Legge mosaica, non mi permetto mai confutarle (pur sentendomi naturalmente libero, in nome del grande insegnamento di libertà che è alla radice dell’ebraismo, di aderire, eventualmente, a un’altra interpretazione di diverso tenore). Ma quando esse trattano di problemi generali di etica e di convivenza civile, credo che sia non solo lecito, ma anche doveroso esternare, quando appaia necessario, il mio dissenso. Nel caso di specie, non ho mai capito perché il desiderio di genitorialità, quando manifestato da una coppia ‘normale’, venga sempre benedetto ed elogiato come un segno di generosità, altruismo, amore, mentre, quando manifestato da una coppia omosessuale, diventi capriccio, consumismo, egoismo. Non ho mai capito perché per un bambino sia meglio crescere da solo, piuttosto che in una famiglia disposta a dargli amore, protezione, sicurezza. Non ho mai capito perché due persone dello stesso sesso non possano essere degli ottimi genitori. Soprattutto, non ho mai capito la retorica della famiglia ‘normale’ come automatico paradiso, e di quella ‘irregolare’ come luogo di errore e deviazione. Quante persone sono state cresciute da genitori soli, nonni, zie, sorelle, precettori? Quante ne conosce ciascuno di noi? Sono tutti venuti su male? E le belle famigliole di papà, mamma e bambini, sono davvero tutte così perfette? Se, al loro interno, ci sono violenze o incesti, o, quanto meno, litigi o incomunicabilità, urla o silenzio, basta la loro ‘normalità’ a farne un esempio da seguire, un nobile presidio di valori morali?
Francesco Lucrezi, storico
(16 gennaio 2013)