Qui Venezia – Alla Ca’ Foscari un confronto sulla Memoria
Nel 1943 militari italiani sotto il controllo delle SS naziste iniziarono le prime retate di ebrei anche a Venezia. Lì ovunque, e chiunque venisse identificato come ebreo – che fosse un uomo adulto, una bambina neonata o un’anziana signora immobilizzata nel letto di una casa di riposo – venne spinto nel lungo percorso che dalle carceri veneziane portò al campo di concentramento di Fossoli e infine al campo di sterminio di Auschwitz Birkenau.
L’Università, come luogo che ha conosciuto e in parte prodotto le leggi razziste e la persecuzione antiebraica, è arrivata in ritardo ad approfondire i fatti e le testimonianze. In parte per inerzia, in parte perché non ha voluto considerare da subito le proprie responsabilità dirette nella campagna di discriminazione contro gli ebrei. L’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha avviato da anni una sua forma di riflessione sull’argomento, proponendo conferenze e lezioni sul tema come forma di partecipazione attiva al dibattito sulla Shoah.
Incontri come quello proposto in occasione del Giorno della Memoria dal titolo “Venezia 1943 / Venezia 2013 cosa accadde, che cosa ci dice” con l’intervento di Gadi Luzzatto Voghera, docente della Boston University a Padova, che si occupa della storia degli ebrei e di didattica della Shoah e dell’antisemitismo, introdotto da Giovanni Vian, docente di Ca’ Foscari e storico del cristianesimo.
Venezia fu colpita pesantemente dai fatti di quegli anni, venne colpita nel profondo del proprio tessuto sociale. Quando durante i rastrellamenti si andavano a catturare gli ebrei del Veneto non si andava infatti a colpire soggetti estranei, ma si andavano a colpire individui che erano da secoli profondamente radicati nella società veneta e nelle istituzioni culturali del Veneto.
Uno per tutti Giuseppe Jona, medico, socio corrispondente dell’Istituto veneto e presidente dell’Ateneo veneto dal 1925 al 1929, che nella veste di presidente della Comunità ebraica di Venezia nel 1943, quando i nazisti gli imposero di consegnare gli elenchi degli appartenenti alla Comunità ebraica di Venezia, decise di togliersi la vita pur di non cedere. Altri come lui che, sopravvissuti, ritornarono nella Venezia del dopoguerra e vennero riammessi dalle istituzioni che li avevano cacciati durante le leggi razziste.
Un comportamento che provocò un certo sconcerto, ci si sarebbe aspettato il rifiuto da parte loro di rientrare dove non erano stati ben accetti fino a qualche anno prima. Una reazione che sottolinea quanto fosse profonda l’integrazione, tale da non provocare nelle vittime un distacco, un rifiuto categorico di quella società che li aveva allontanati. I pochi sopravvissuti ripresero il processo di integrazione con una visione migliorativa delle condizioni di vita, che prevalse sull’immane tragedia vissuta. Una forma di attualizzazione del termine Zachor, del ricordare che viene declinato, secondo il significato ebraico, in un’ottica protesa al futuro e non al passato.
Dopo il 1945 e il 1946 molti cercarono di parlare, di raccontare la loro vicenda, ma non trovarono orecchie disposte ad ascoltare. Si pensi a Primo Levi, che si ridusse a dover pubblicare “Se questo è un uomo” con una piccola casa editrice e con una tiratura di 2500 copie, perché rifiutato da case editrici più prestigiose come Einaudi. La società non era pronta, non era disposta ad affrontare un passato così vicino e i testimoni dopo i primi tentativi di aprirsi al racconto scelsero infine il silenzio.
Con la crisi delle svastiche negli anni ’60, quando in Europa per motivi sconosciuti, alcune compagini giovanili ripresero a utilizzare la svastica come simbolo di riconoscimento, si sollevarono nuovi interrogativi all’interno della comunità scientifica europea: non erano svaniti i simboli, come non era svanito l’antisemitismo, passato indenne attraverso la Shoah e ripresentatosi attraverso altri percorsi di rielaborazione ideologica.
La vera svolta che spinse l’Europa a fare i conti con la Shoah, fu la cattura in Argentina di Adolf Eichmann e il successivo processo, il primo nella storia che si può considerare mediatico. La riflessione si sviluppò non solo nella società esterna, ma anche all’interno del mondo ebraico: dal confronto ad alto livello tra Hanna Arendt e Gershom Scholem, alla messa in accusa dei Consigli ebraici che gestivano i Ghetti, considerati in parte collaborazionisti del regime, alle accuse ad personam, alle teorie contrapposte degli intenzionalisti e dei funzionalisti: i primi che facevano risalire l’ideologia dello sterminio già ai primi anni dopo la pubblicazione del Mein Kampf e i secondi che invece la riconducevano alla conferenza di Wannsee.
Da quel momento non solo la storiografia, ma molte altre discipline presero in considerazione l’esperienza concentrazionale per i loro studi: la sociologia, la medicina, la psicologia. Si ricordi l’esperimento di Milgram sull’obbedienza, scaturito da una delle testimonianze di Eichmann al processo, che portò alla conclusione che: “…a volte non è tanto il tipo di persona che siamo, ma la situazione in cui ci troviamo a determinare le nostre azioni”.
Con Yad Vashem nacque l’idea che sulla Shoah si dovessero fornire strumenti museali che non esaurissero il loro compito con la mera celebrazione del ricordo, ma che fossero luoghi per la raccolta di documenti, luoghi di studio e approfondimento. Un museo come forma attiva di memoria che celebrasse inoltre chi mise a repentaglio la propria vita per salvare anche un solo ebreo.
Fin dagli anni ’70 il cinema aveva iniziato a trattare, sebbene edulcorandolo, il tema della Shoah. Si fece un ulteriore passo avanti solo nel 1985 con l’uscita del documentario “Shoah” realizzato da Claude Lanzmann, in cui erano presenti, in più di 9 ore di girato, testimonianze dei sopravvissuti, dei carnefici, ma soprattutto testimonianze di chi visse la Shoah da fuori. Un ragionamento sui vuoti, sui non luoghi della Shoah, sull’indifferenza di chi aveva intuito cosa stava succedendo e non fece nulla.
Da qui la domanda pressante: se i luoghi sono stati distrutti, se rimangono luoghi della memoria, che ruolo avranno le testimonianze dei sopravvissuti?
I testimoni tornarono allora a farsi sentire, spesso con la difficoltà degli storici nel distinguere tra ricordi reali e ricordi costruiti, ad esempio, attraverso successive letture. Con l’emergere delle testimonianze la società Europea capì che l’evento Shoah e la memoria di quegli eventi erano un elemento fondante della storia d’Europa. Una forma di religione civile con un monumento posto al centro, Auschwitz.
Nel 2013 la società italiana interroga la memoria di quanto accaduto, propone percorsi educativi di ricerca e di riflessione, sulla base di questo sentire la Shoah, cercando di tutelarsi da continue incursioni di nostalgici, negazionisti che sempre più pensano di poter imporre le loro posizioni sotto l’egida di un oblio diffuso e di un appiattimento delle responsabilità.
Michael Calimani
(17 gennaio 2013)