Un continente nero che diventa verde

Cosa sta succedendo nel Mali? Più propriamente, cosa sta avvenendo nell’Africa sahariana e del Sahel? Nulla di troppo sorprendente, purtroppo, per gli analisti che da tempo seguono, con preoccupazione, l’evolversi della situazione di quelle aree che mettono in comunicazione il Mediterraneo con l’«Africa nera». La caduta dei regimi dispotici in Libia, Tunisia ed Egitto ha sprigionato forze ma anche aperto falle che faticheremo a contenere. Agli esiti, più o meno imprevedibili, della «primavera araba», tradottisi in una rottura degli equilibri interregionali e dell’area Memo (Mediterrano-Medio Oriente), si accompagnano peraltro fenomeni di più lungo periodo, che precedono gli stessi sommovimenti popolari avviatisi nel 2011. In estrema sintesi, il modello dello Stato-nazionale, importato nel continente negli anni della decolonizzazione, si sta contorcendo su di sé e quindi disfacendo. Recitare una prece non è il caso. Piuttosto bisogna prendere atto che le vecchie fedeltà di gruppo, ossia claniche, precedenti alla riorganizzazione amministrativa e politica della sovranità avvenuta dopo la fine della Seconda guerra mondiale, hanno a tutt’oggi la meglio su qualsiasi altra proposta, a partire dall’idea stessa di Stato laico, così come lo concepiamo nell’Europa occidentale, ed in particolare in quelle che sono state le due grandi potenze coloniali, la Gran Bretagna e la Francia. Un’idea, quest’ultima, che vi era stata importata e che sta quindi consumandosi, dando campo libero al movimentismo militante dei gruppi del radicalismo religioso che producono quella “identità” collettiva che altrimenti mancherebbe. Si tratta di un processo di lungo periodo, che ha tutta una serie di ricadute e di addentellati ma che va tenuto in considerazione se si vuole meglio capire il senso degli eventi che stiamo vivendo nelle singole aree di crisi. Un fatto rilevante, in tutto ciò, è l’azione di scardinamento che i percorsi della globalizzazione economica hanno esercitato sui già precari, e quindi sempre mutevoli, equilibri dell’area africana. Anche in questo caso ci troviamo a che fare con una tendenza di lungo periodo, i cui effetti non sono prevedibili aprioristicamente. L’unico dato certo è che i recenti fermenti popolari si sono tradotti in un percorso a senso unico, ossia la delegittimazione dei già pencolanti poteri costituiti. Il caso della Libia è emblematico: la decomposizione e la disintegrazione dell’alleanza pantribale di cui Gheddafi era il garante non ha portato alla sostituzione del vecchio potere con uno nuovo, e men che meno ad un ricambio di classe dirigente, bensì alla segmentazione in aree di influenza disegnate su ciò che preesisteva alla fondazione, tra il 1969 e il 1977, della Jamāhīriyya (la cosiddetta «Repubblica delle masse»). Non è il vecchio che ritorna ma è un nuovo che si ridisegna con i colori e le fisionomie di ciò che fu. Un fatto, quest’ultimo, comunque non definitivo, destinato probabilmente a conoscere ulteriori evoluzioni. Anche i paesi che sono rimasti ai margini delle proteste stanno ora misurandosi con gli effetti di amplificazione ritardata che queste hanno generato, un po’ come nel caso dei cerchi concentrici causati dai sassi gettati nello stagno o dello sciame sismico. L’Algeria è al centro dei mutamenti, ovvero è una delle poste del gioco. Da essa è nato il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, costituitosi negli anni Novanta, durante la sanguinosa guerra civile, di fatto poi sostituitosi al Gia, il Gruppo islamico armato, originariamente il maggiore protagonista delle violenze nei due decenni trascorsi. I salafiti si sono quindi integrati, nel 2005, in al-Qaeda, dando origine ad al-Qeada nel Maghreb islamico (AQIM), che oggi opera non solo nella stessa Algeria ma in Mauritania, nel Mali, in Niger, nel Ciad e nelle regioni settentrionali della Nigeria. Il controllo della regione del Sahel è capitale per il destino del continente, concentrando non poche risorse, essendo una ampia porzione di territorio sul quale i cinesi vanno facendo grossi investimenti e contando su comunità cristiane di grossa consistenza. Inutile richiamare il fatto, già evocato alcune settimane fa sulle pagine di questa newsletter, che ad est c’è ciò che resta della Somalia e, in prospettiva, il ponte strategico con lo Yemen, base operativa degli Shaabab. In competizione nell’intera area Memo ci sono tre “modelli”, se così li si vuole considerare, di organizzazione politica: quello autoritario dei Fratelli musulmani, che tuttavia fatica a trovare conferme, malgrado l’eccellente ramificazione in Egitto; l’esperienza turca, non facilmente proponibile tuttavia in Africa; infine, quello movimentista della Salafiyya. Quest’ultimo è il meno strutturato ma è anche quello che ha, sul breve periodo, più chance, potendo giocare sulla massima mobilità e su una capacità di proselitismo e reclutamento non indifferenti. Si tratta, comunque, di tre modi diversi di essere dell’Islam politico oggi. Il fatto che vi sia una comune radice sunnita non ci dice più di tanto (o non dice tutto), poiché nel mondo musulmano odierno la spaccatura sempre più forte è tra istituzioni e movimenti, fatto che è trasversale alle grandi famiglie identitarie e alle antiche scuole di osservanza. Le istituzioni dei fragili Stati nazionali raccolgono quel che resta dell’esperienza dello Stato laico, di derivazione novecentesca. È il caso della Siria di Bashir al-Assad, per fare un esempio, tale finché riuscirà a resistere alla pressione delle opposizioni armate. I movimenti, invece, capitalizzano l’ansia di trasformazione incanalandola verso nuove forme di partecipazione e coinvolgimento. L’islamismo radicale gioca qui la sua partita più fortunata. Su questi cambiamenti al momento vigilano, con occhio attento, le petrolcrazie della penisola arabica, che da sempre si impegnano nel medesimo tempo su piani diversi, aiutando gli uni e gli altri, affinché ciò gli garantisca spazio di contrattazione e respiro strategico. Allo stato attuale dei fatti dobbiamo riconoscere che è tutta l’Africa compresa tra il Mediterraneo e la fascia sahelo-sahariana ad essere interessata all’espansione del radicalismo. È come se una parte del continente fosse stata assorbita dentro le dinamiche del mondo arabo-islamico. Il tributo che le comunità cristiane sono chiamate a pagare, con il ricorso contro di loro ad una vera e propria politica del terrore, che ha ad obiettivo la distruzione dei secolari insediamenti, è inscritta in questa dinamica. Si tratta non solo di espellere scomodi antagonisti ma anche di “normalizzare” le comunità musulmane nel nome della Sharia, intesa come strumento di egemonia morale e culturale, sotto il cui ombrello si può poi tranquillamente procedere ai peggiori commerci e a traffici clandestini, come già è avvenuto in Afghanistan. Un pensiero particolare va alla Nigeria, una federazione di trentasei Stati, con 158 milioni di abitanti, la cui popolazione, secondo le proiezioni demografiche, potrebbe triplicare di qui alla fine del secolo. Le violenze interetniche e la divisione tra un nord musulmano e un sud cristiano è parte del quadro di cui si va dicendo. L’intervento francese nel Mali, così come la disastrosa gestione dell’ultimo rapimento di ostaggi ad Amenas in Algeria, stanno quindi in questa configurazione del mutamento. Le milizie jihadiste di Aqim hanno i loro santuari nella parte settentrionale del primo paese, che è divenuta in questi mesi l’anello più debole di tutta la fascia sub sahariana. Le possibilità di attraversare, con le carovane dei nomadi, i confini desertici – laddove il Sahara non è un vuoto ma un pieno di rapporti e transiti – e di praticare una prassi a doppia faccia, il contrabbando e il proselitismo, è al momento una chiave vincente per i gruppi radicali. È lì che Mokthar Belmoktar, il capo salafita emerso recentemente agli onori della cronaca, trova il suo terreno naturale. Il fatto stesso che sia nato quarant’anni fa nell’Algeria centrale e che nel 1991 abbia abbracciato la causa del Jihad, andando a combattere in Afghanistan, ne ha fatto un leader “naturale” della galassia di gruppuscoli alla perenne ricerca di una causa sotto la quale motivare la loro attività predatoria. Belmoktar si è infatti fatto le ossa combattendo anche nel Sahara e rivestendo, dopo l’esperienza afghana, un ruolo crescente nella guerriglia islamista del Gia contro l’esercito algerino e la popolazione della Cabila. Da lì ha guidato la successiva penetrazione nel Sahel, usando un mix di violenza sistematica e alleanza politica con i gruppi separatisti della regione (nel nord del Mali si è legato al movimento per la liberazione dell’Azawad, un’ampia porzione di territorio di 850mila chilometri quadrati con 1.200mila abitanti, popolata dai tuareg, che ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza dal Mali il 6 aprile 2012, dopo violenti combattimenti contro l’esercito maliano). Una delle fonti più importanti di finanziamento sono i rapimenti, soprattutto di occidentali, a scopo di estorsione. Attraverso i riscatti si pagano le armi, si distribuisce denaro ai propri sodali e si reclutano nuove combattenti, soprattutto tra i più giovani. Il rapporto con le comunità tuareg è di reciproco interesse, essendo quest’ultime tra quanti meglio conoscono il Sahara . Aqim fornisce loro il supporto operativo per le scorribande che fanno tra le aree rurali e per il contrabbando. Dove in queste pratiche finisca la criminalità politica e inizi quella comune è pressoché impossibile dirlo, alimentandosi vicendevolmente l’una dell’altra. Il terrorismo non avrebbe futuro, infatti, se non costituisse anche una ricca impresa economica. Dopo il ridimensionamento dello scenario afghano, che per al-Qaeda ha comportato una perdita di ruolo, la scelta che il network terrorista ha fatto è stata quella di creare nuove scenari di scontro dentro i quali attirare gli occidentali. L’intervento francese in Mali fa quindi da involontaria sponda per le attività di Belmokthar. Ma cerca anche di porre un freno alla deriva libica. Dopo la caduta di Gheddafi gli abbondanti arsenali sono stati saccheggiati e “privatizzati”, in una sorta di mercato a cielo aperto. Si sono così costituite nuove rotte del contrabbando tra le quali quella che da Bengasi arriva a Gaza, direttamente nelle mani di Hamas. Quel che è certo è che i predoni islamisti hanno ben poco a che fare con certe visioni romantiche dei “guerriglieri del deserto”. Non solo predicano e praticano l’intolleranza, usando la foglia di fico della versione più oltranzista della religione per imporre un regime di ferro e di fuoco, ma lo fanno ricorrendo alle strumentazioni più moderne. La mobilità è il loro punto di forza, di contro ai tempi molto più lunghi ai quali sono abituati gli eserciti tradizionali. Ancora una volta dovremo quindi misurarci con un’ampia area di instabilità permanente, alla quale l’intervento di Parigi, sostenuto per il momento obtorto collo dai paesi occidentali e con il ricorso alle risoluzioni 2071 del 12 ottobre 2012 e 2085 del 20 dicembre 2012 delle Nazioni Unite, potrà dare solo risposte parziali.

Claudio Vercelli

(20 gennaio 2013)