Israele al voto – La stagione della destra
Al di là del risultato finale, un dato è emerso in modo netto durante la campagna elettorale conclusasi con le elezioni del 22 gennaio: il baricentro della politica israeliana è spostato a destra. A metà ottobre, quando la Knesset ha approvato il proprio scioglimento, Benjamin Netanyahu e il suo Likud erano già considerati l’uomo e il partito da battere. Gli analisti si domandavano se le formazioni di centro-sinistra, a cominciare dal partito laburista di Shelly Yachimovich, avrebbero avuto qualche possibilità di detronizzarlo, magari puntando su quell’agenda di riforme sociale che tanti cittadini israeliani avevano reclamato a gran voce nell’estate del 2011. Poi in pochi mesi sono successe molte cose. La pioggia di razzi sparati da Gaza contro il sud del paese, che sono arrivati a colpire Tel Aviv, e l’operazione Pilastro di Difesa hanno in buona parte accantonato le tematiche sociali dalla campagna elettorale. L’affollamento dei partiti al centro e l’incapacità dei tre leader (Yachimovich e poi l’ex giornalista Yair Lapid di Yesh Atid e Tzipi Livni già alla guida di Kadima) di trovare un accordo e lavorare per l’obiettivo comune hanno eclissato le pur remote prospettive di un cambiamento alla guida del paese. Dal punto di vista politico, un colpo importante è stato messo a segno da Netanyahu con la decisione di presentare una lista unica insieme al partito alleato nel precedente governo Yisrael Beytenu (Israele, casa nostra). Il leader di Beytenu Avigdor Lieberman è stato però costretto a dimettersi dalla carica di ministro degli Esteri a dicembre perché indagato per frode, e questo probabilmente non ha giovato al grande blocco. Che si è ritrovato un avversario dove proprio non si aspettava: alla sua destra. Il personaggio in questione, la vera sorpresa politica di queste elezioni, è il leader di Habayit Hayehudì (la Casa ebraica) Naftali Bennett. Punto di riferimento politico degli abitanti degli insediamenti, imprenditore dell’high tech con diversi anni di permanenza negli Stati Uniti, già combattente in un’unità d’elite dell’esercito e poi capo dello staff dello stesso Netanyahu dal 2006 al 2008, Bennett è riuscito a ritagliare per il suo partito un ruolo di protagonista nella nuova Knesset. Se Bibi ha perso consensi, in buona parte lo ha fatto a vantaggio di chi sta più a destra di lui, e non a favore delle formazioni di centro. Chi è veramente Bennett? Negli ultimi giorni di campagna elettorale hanno cercato di rispondere a questa domanda i giornali di mezzo mondo, che hanno scoperto all’improvviso, sondaggi alla mano, un probabile uomo chiave degli equilibri della politica israeliana nel futuro. A proporre un lunghissimo approfondimento è stato per esempio il prestigioso settimanale New Yorker, che attraverso la figura del leader della Casa ebraica ha offerto una fotografia (piuttosto critica) del panorama politico e sociale israeliano, con incursioni nella sua storia e in particolare nella storia degli insediamenti. Habayit Hayehudì è nato nel 2008 dalla fusione di vari piccoli partiti della destra religiosa. La forza di Bennett, ha notato il magazine ebraico americano Tablet, è un innato carisma, basato sulla capacità di porsi davanti agli interlocutori su un piano di parità, di ascoltarli, e poi di spiegare loro in modo comprensivo la ragione per cui sbagliano. Bennett è senz’altro portatore di visioni piuttosto radicali. Ha fatto scalpore la sua intervista con il popolare giornalista Nissim Mishal: incalzato, ha dichiarato che se gli venisse dato l’ordine di evacuare gli abitanti di un insediamento dalle loro abitazioni, in quanto ufficiale riservista di Tzahal, lui rifiuterebbe, perché contrario ai principi della sua coscienza, pur precisando che non inviterebbe pubblicamente nessuno a fare altrettanto (parole per cui è stato duramente attaccato da Netanyahu). La sua posizione a proposito della questione israelo-palestinese è semplicemente che la soluzione del conflitto non sia possibile, e che quello che probabilmente accadrà in futuro sarà una generale annessione della Cisgiordania da parte di Israele, lasciando le sue principali città sotto l’amministrazione autonoma palestinese, ma con la sicurezza israeliana. Eppure Bennett si è rivelato capace di parlare ad ampi strati della popolazione. Pur guidando un partito religioso, ha proposto una candidata laica come Ayelet Shaked (e alcuni sondaggi preelettorali indicavano che più del 40 per cento dei simpatizzanti di Habayit Hayehudì fossero non osservanti). Pur proponendo come punto qualificante della sua offerta politica le istanze degli insediamenti, lui e la famiglia abitano a Ra’anana, sobborgo nella bolla di Tel Aviv e lui personalmente indossa sempre la kippah all’uncinetto tipicamente modern orthodox, non quella di foggia larga che contraddistingue i più radicali tra gli abitanti degli insediamenti. Così, il ruolo di Bennett durante la campagna elettorale ha messo parzialmente in ombra l’altro attore fondamentale del panorama della destra religiosa, il partito Shas, che ha come punto di riferimento l’ultranovantenne rabbino Ovadia Yosef. Senza focalizzarsi sull’esito delle elezioni, molti analisti hanno voluto comunque sottolineare che sarebbe sbagliato pensare che l’elettorato israeliano abbia semplicemente sposato in toto le posizioni di destra. Un sondaggio realizzato poco prima del voto ha dimostrato per esempio che la stragrande maggioranza degli israeliani rimane favorevole alla soluzione basata su due Stati per due popoli, compreso il 57 per cento degli elettori del Likud e il 53 per cento di quelli di Habayit Hayehudì. Solo che prevale la disillusione rispetto alla possibilità che questo possa accadere in un orizzonte temporale breve. Ha spiegato Dan Schueftan, già consigliere di Yitzhak Rabin e Ariel Sharon: “La maggior parte degli israeliani è molto pessimista sulla possibilità di raggiungere una pace con i palestinesi e con gli arabi in generale, e questo è il paradigma della destra. Eppure la maggioranza di loro desidera un compromesso basato sulla divisione della terra in due Stati per due popoli, e questo è il paradigma della sinistra. Dunque i cittadini dello Stato ebraico non dicono di non volere la pace. Ma neppure sono disponibili a concessioni che non ritengono vi condurranno”.
Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, febbraio 2013
(22 gennaio 2013)