Qui Venezia – Mondo giuridico e persecuzioni
In occasione della tredicesima edizione del Giorno della Memoria l’Ateneo Veneto propone alcuni appuntamenti di approfondimento per ricordare e onorare la memoria delle vittime della Shoah e delle persecuzioni razziste. Il primo ieri sera con la presentazione del libro di Giovanni Acerbi “Le leggi antiebraiche e razziali italiane e il ceto dei giuristi” a cui sono intervenuti gli avvocati Paolo Gnignati, Adriano Vanzetti e Renato Alberini, coordinati dal giornalista Paolo Navarro Dina e introdotti dal vicepresidente dell’Ateneo Veneto, Silvio Chiari alla presenza dell’autore. Numerosi sono stati gli studi e i contributi dedicati alla normativa degli anni 1938-1945, ma il libro di Acerbi si propone di analizzare, in particolare le ‘leggi della vergogna’ che, muovendo dalla negazione radicale di quelle regole basilari e punto di partenza della legislazione di ogni paese civile, hanno scosso le fondamenta dell’ordinamento giuridico italiano dell’epoca. Leggi al servizio dello Stato, proposte e scritte da giuristi di regime, disponibili a tradurre in un linguaggio tecnico le direttive del partito.
“Il tema del Giorno della memoria, che affrontiamo in questi giorni, è il tema della scelta – afferma l’avvocato Paolo Gnignati – poiché in questa giornata siamo spinti a ricordare non solo le vittime, ma chi con la propria scelta si oppose. Ai giuristi in particolare l’atrocità intrinseca della normativa in materia di razza doveva risultare immediata ed evidente. Una legge che assume i connotati di torto legalizzato se messa a confronto con la legge n.211 del 20 luglio 2000, istitutiva del Giorno della Memoria, che appare come una forma di contrappasso normativo tanto diversi sono i valori proposti”.
Il libro di acerbi ci mostra come l’introduzione delle leggi razziali presenti dal punto di vista tecnico un momento di rottura definitiva con i principi di legalità che il ceto dei giuristi, sebbene anche solo da un punto di vista formale, aveva cercato di coltivare anche nel periodo fascista. D’altra parte l’introduzione a livello regolamentare e la sua completa applicazione venne promossa dalla stessa operosità, in negativo, di molti giuristi, che contribuirono, a volte, all’inasprimento delle condizioni oltre tali normative.
I motivi di questo atteggiamento sono identificabili certo nella corrispondenza con un’ideologia di regime, ma anche nell’opportunismo, visto che con l’applicazione di tali norme si sarebbero liberate posizioni lavorative e cattedre universitarie di rilievo, assegnate in precedenza ad avvocati e professori appartenenti alla “razza” ebraica.
Una parte della legislazione razziale fu introdotta attraverso atti amministrativi, che non avrebbero potuto essere introdotti se non con una legge ordinaria com’era a quei tempo lo statuto albertino: norme come il divieto di villeggiatura, di possedere apparecchi radio, di accesso pubblici archivi e biblioteche, che incidevano nella vita quotidiana e nell’intimo di ogni discriminato.
“Lo statuto albertino, considerata una forma di costituzione flessibile, – spiega l’Avvocato Adriano Vanzetti – era, sì frutto dei valori di libertà e uguaglianza rivendicati durante i moti del ’48, ma era pur sempre una legge ordinaria e come tale poteva essere modificata da un’altra legge ordinaria di pari livello”. Oggi, la costituzione italiana è invece definita rigida, una legge ordinaria se in contrasto con una norma di rango costituzionale che va ad incidere sui principi fondamentali della prima parte della costituzione, può essere disapplicata dal magistrato o sollevata la questione di costituzionalità da parte dell’avvocato che deve applicarla. Se ritenuta poi infondata può essere rimessa la questione alla corte costituzionale che dovrà decidere se quella norma è in conflitto con i principi costituzionali.
Con la legge del 29 giugno 1939 agli ebrei venne vietato l’esercizio libero delle professioni: giornalista, medico-chirurgo, avvocato, procuratore, patrocinatore legale e molte altre. Ad eccezione dei giornalisti, tutti i professionisti, avvocati compresi, dovevano essere iscritti ad elenchi speciali ed esercitare la loro professione solo per soggetti appartenenti alla razza ebraica, rifiutando qualsiasi collaborazione a livello professionale tra ebrei e non ebrei. Norme che scossero violentemente la professione forense in Italia dove erano presenti 554 avvocati ebrei iscritti agli albi, su un numero totale estremamente ridotto rispetto a oggi.
L’atteggiamento degli italiani di fronte a tali provvedimenti fu caratterizzato da una profonda indifferenza, la sommaria conoscenza odierna delle leggi razziali rientra in un processo di rimozione collettiva della memoria, di destrutturazione del ricordo di un passato recente. Un errore è ritenere le leggi razziali un terribile episodio di smarrimento della ragione da parte di una casta limitata e ridotta di gerarchi giunti alla fine della loro ventennale esperienza dittatoriale. Avvenimenti storici da ritenere estranei alle abitudini nostrane in linea con il falso mito del bravo italiano e del cattivo tedesco. Il razzismo e l’intolleranza, invece, naquero e crebbero attraverso atti e gesti quotidiani ai quali i più si rassegnarono.
Sulla questione del bravo italiano è intervenuto anche l’avvocato Renato Alberini, scopertosi figlio di madre ebrea solo dopo la guerra, che non giustificando assolutamente il comportamento di chi volontariamente decise di collaborare con il fascismo, ha sottolineato come si vivesse in una dittatura che si era profondamente radicata e che aveva avuto una presa fortissima sull’opinione pubblica, spesso ignara di ciò che stava succedendo: “Si poteva pretendere dall’uomo comune – si chiede Alberini – di rinunciare alla propria vita in favore di una minoranza della popolazione che fino al giorno prima era parte integrante della società?”. Eppure, ha continuato Alberini, ci furono persone che si opposero, come Mario Rotondi, grande liberale, direttore de “La rivista di diritto privato” dove in una recensione del 1944, parlando delle leggi razziali, affermò che fossero una legislatura che disonorava profondamente la professione
Michael Calimani
(23 gennaio 2013)