Ticketless – Il ponte sette luci
La foto qui accanto non spaventa soltanto il normale viaggiatore in treno. L’ha scattata Aldo Pavia e l’ho ritrovata in un bel libro letto in questi giorni, sulla biografia di Pino Levi Cavaglione. Lo hanno scritto Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni (Edizioni Metauro, pref. di Pupa Garribba). Il libro prende il titolo dal ponte situato lungo la linea Roma-Formia (“Il ponte sette luci”), fatto saltare dai partigiani nella notte fra il 20 e il 21 dicembre 1944. L’attentato produsse più di 400 vittime. A questo episodio si è ispirato Nanni Loy per un film di successo, “Un giorno da leoni” (1961). Ho letto il libro perché la Resistenza ebraica è un tema che mi appassiona, ma anche per ragioni private. Da tempo cercavo notizie su questo coraggioso personaggio che porta (quasi) il mio cognome. Abbiamo antenati comuni nella Acqui ebraica dell’Ottocento. I miei antenati, rimasti nel Piemonte infranciosato, conservarono, la grafia antica avignonese (les melons de Cavaillon…). Gli antenati di Pino scendendo a Genova aggiunsero una –e per italianizzarsi meglio. Fra questi Emma Cavaglione, la mamma di Pino, morta con il marito ad Auschwitz. La prima cosa da dire è che la scelta di Pino è fra quei casi, unici, ma non rari, di giovani che scelsero di diventare partigiani in conseguenza della deportazione dei genitori. Si scopre poi da questo libro che il diario di Pino, “Guerriglia nei castelli romani”, fu nel 1945 inserito da Pavese (il suo giudizio lusinghiero è riprodotto qui dai due autori) nel catalogo Einaudi che due anni dopo rifiuterà “Se questo è un uomo”. Come Primo Levi, anche Pino Levi pose fine in modo drammatico alla sua vita, suicidandosi nel 1971. Le righe che scrisse, poco prima di morire, per l’ultima edizione del diario (Il melangolo), fanno venire i brividi alla schiena. Mi sono sempre molto interrogato, in questi anni, sul tema della violenza e ho criticato coloro che, parlando di Resistenza, sono soliti distinguere una violenza buona e una violenza cattiva. La violenza è violenza e basta. In guerra gli individui si trasformano, quale che sia la parte cui appartengono. Pino Levi Cavaglione fu per tutta la vita segnato dall’episodio del Ponte sette luci: “Io ho lottato perché sentivo di non avere più riparo nel passato, né garanzia né impegni; perché volevo vendicare mia madre e mio padre e le innumerevoli vittime dei tedeschi e dei fascisti. Se gli italiani non avessero provato un brivido di sdegno alle notizie delle uccisioni di massa (…) non vi sarebbe stata quella rottura del normale equilibrio fra il pensiero e l’azione dalla quale fermentò l’iniziativa omicida senza remissione e senza scampo, indispensabile per il combattimento. Ma oggi tutto è avvolto nelle nebbie del passato. Io stesso, che non avevo mai sparato prima e non ho più sparato dopo il 1944 ad alcun essere vivente, io stesso considero il Pino di allora un uomo diverso, e a me ormai del tutto estraneo. La mia speranza e l’impegno sono oggi rivolti a far sì che l’odio dell’uomo verso l’uomo scompaia per sempre”.
Alberto Cavaglion
(23 gennaio 2013)