“Il museo e le ambiguità della politica”

(…) C’è, infine, dietro al progettato museo della Shoah di Roma a Villa Torlonia, una vicenda che concerne il pubblico, la comunità e i partiti politici. Pur essendo già a quel punto il prodotto di intense discussioni fra la comunità ebraica, gli architetti e vari gruppi di intellettuali e politici, il progetto per il museo non fu affatto compiutamente definito nel 2005. Ciò che è seguito fra il 2005 e il 2010 (e oltre: la costruzione non è ancora iniziata al momento della stesura di questo libro) ci consente di aggiungere almeno altre due dimensioni cruciali a questo caso, che ancora una volta ci fornisce delle coordinate chiave per la nostra esplorazione del modo di raffigurare l’Olocausto in Italia dalla fine della guerra. La prima di queste dimensioni attiene ai partiti politici. Quando, nell’estate del 2005, fu preliminarmente approvato dal Consiglio comunale di Roma, il Museo della Shoah era un progetto sostenuto dal partito allora alla guida della città, quello del suo sindaco e leader nazionale Walter Veltroni: i Democratici di sinistra. I Ds costituivano una delle svariate reinvenzioni post-Guerra fredda dello storico Partito comunista italiano, che era stato uno dei grandi partiti di massa nella politica italiana del dopoguerra. I valori del Pci avevano profonde radici nella Resistenza antifascista del 1943-45 e nella Costituzione democratica del 1947-48, nata dalla Resistenza stessa. Sembrava naturale e del tutto coerente per i Ds associare se stessi, in termini di asserzione etica e politica, a un museo che commemorasse gli orrori fascisti e nazifascisti dell’Olocausto (anche se, come vedremo, i rapporti tra sinistra e comunità ebraiche erano stati resi molto complicati dalla vicenda geopolitica di Israele, specialmente dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967 e poi dopo l’invasione del Libano del 1982). Nell’agosto 2005 il voto del Consiglio comunale di Roma per il progetto del museo a Villa Torlonia era stato unanime, ma complicazioni burocratiche e proteste provenienti da residenti locali in merito alle dimensioni dell’edificio e alla conseguente perdita di spazio verde ritardarono il progetto protraendosi fino allo scadere del mandato di Veltroni, che nel 2008 perse la carica. Il nuovo sindaco, Gianni Alemanno, apparteneva al Popolo della Libertà, partito di destra di Silvio Berlusconi all’epoca al governo, ma proveniva da uno dei partiti confluiti nel PdL, quell’Alleanza nazionale che a sua volta discendeva dal Movimento sociale italiano, il principale partito di estrema destra, neofascista, del dopoguerra italiano. Alemanno era un (ex) fascista. Non considerò il museo una priorità e alcuni dei suoi meno riformati colleghi della destra ex fascista iniziarono a militare contro di esso. Veltroni si dimise per protesta dal consiglio di amministrazione del museo pochi mesi dopo aver lasciato la carica di sindaco, mentre Alemanno commentava che, se le leggi razziali furono una forma di “male assoluto”, non si dovrebbe far rientrare il fascismo nel suo insieme in questa categoria. Ciò nonostante, An aveva contribuito alla votazione unanime del 2005, pur se solo a patto che nel progetto del museo venisse anche fatta menzione delle vittime innocenti delle brutali uccisioni perpetrate durante la guerra dai comunisti titoisti lungo il confine italo-jugoslavo, nelle cosiddette foibe istriane. Secondo la destra, una commemorazione delle vittime del nazismo rendeva opportuno un riconoscimento delle vittime del comunismo per “pareggiare” le atrocità dei totalitarismi del xx secolo. Questo principio era stato chiaramente espresso a livello nazionale con l’istituzione di un “Giorno della Memoria” per l’Olocausto, iniziato a celebrarsi il 27 gennaio 2001, presto seguita dall’istituzione di un parallelo “Giorno del Ricordo” per le vittime delle foibe (e dell’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia di italiani e anticomunisti avvenuto nel dopoguerra), a partire dal 10 febbraio 2005. Alemanno aderì dunque a questa linea, ed è stato sotto il suo mandato che il Consiglio comunale ha approvato il progetto definitivo e l’avvio dei lavori, previsto inizialmente nel 2010, anche se è stato poi rimandato. Che un sindaco ex o post fascista come Alemanno mandi avanti e approvi, in collaborazione con la Comunità ebraica di Roma, il Museo della Shoah, la dice lunga, non senza creare perplessità, sulla politica postmoderna o postideologica; ma forse non è poi così sorprendente, se si considera che, come la sinistra dagli anni Sessanta si è storicamente posta pro-Palestina, così la destra, e specialmente quella ex fascista guidata dal suo leader nazionale Gianfranco Fini, si è strategicamente mossa verso una posizione nettamente pro-Israele, usandola in maniera rilevante, insieme a una moderata osservanza della commemorazione della Shoah, per legittimare se stessa come partito al governo e per prendere sempre di più le distanze dai propri ascendenti nazisti, fascisti e antidemocratici. Le politiche dei partiti e le ideologie, o piuttosto i residui delle ideologie del XX secolo che si agitano come spettri sulle politiche del XXI secolo, hanno svolto un ruolo cruciale nel forgiare il discorso pubblico e l’attività culturale che ruotano intorno all’Olocausto. Ma c’è da considerare anche un’altra, tipicamente italiana, linea divisoria, non fra destra e sinistra, né fra ebrei e italiani, bensì fra culture, identità e storieregionali fortemente diverse. Anche sotto questo aspetto, la vicenda di Villa Torlonia ci offre un chiaro esempio. Il progetto di Roma ha dovuto affrontare un altro problema, rappresentato da una legge già in vigore, la n. 91/2003, approvata dal Parlamento nell’aprile 2003 e denominata “Istituzione del Museo nazionale della Shoah”. La direttiva, votata sia dalla sinistra che dalla destra, nominava come collaboratori ufficiali di questo museo il Ministero per i Beni e le attività culturali, enti ebraici nazionali e locali, un archivio milanese di storia ebraica (il Centro di documentazione ebraica contemporanea) e, infine, la Regione e alcune amministrazioni dell’Emilia Romagna. Perché l’Emilia Romagna? Perché questa iniziale ratifica legislativa per un museo nazionale della Shoah, nel 2003, non lo prevedeva a Roma, ma nel sito di un ex carcere nei pressi di Ferrara. Ferrara, come molti centri regionali e antiche città stato presenti in tutta la penisola italiana, ha una storia ebraica ricca e densamente connotata a livello locale, che risale almeno al XIII secolo per dipanarsi lungo tutte le fasi della reggenza estense e in seguito papale. In particolare per quanto concerne la cultura italiana relativa all’Olocausto, Ferrara ha poi avuto una grande risonanza grazie allo straordinario ciclo di romanzi di Giorgio Bassani pubblicati dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, ambientati perlopiù a Ferrara nei decenni Trenta e Quaranta, raccolti sotto il titolo Il romanzo di Ferrara. Cuore di questo ciclo di sei volumi è Il giardino dei Finzi-Contini, del 1962, di cui sono protagonisti gli adolescenti della comunità ebraica ferrarese degli anni Trenta, predestinati a una tragica fine. La scelta di ubicare il museo a Ferrara era forse dovuta più a quello spazio letterario semimmaginario (Bassani fu il primo narratore della vita degli ebrei italiani e della Shoah a penetrare a fondo nella cultura nazionale) e alla posizione geografica centrale della città, che non a un primato storico nell’esperienza della Shoah. A conti fatti, però, questa attenzione alla diversità regionale e alla molteplicità delle vicende degli ebrei italiani si rivelò una debolezza nel momento in cui si fece strada l’idea di associare alla Shoah la Capitale culturale, nazionale e internazionale. Quando comparve il progetto romano rivale – sostenuto da fondi privati, dal centro istituzionale della Comunità ebraica e dalla Shoah Foundation di Spielberg, di forte richiamo mediatico – il governo nazionale, allora di centrosinistra, nella persona del ministro della Cultura Francesco Rutelli (lui stesso ex sindaco di Roma nonché ex leader della coalizione di centrosinistra), cercò e alla fine trovò un compromesso. Roma avrebbe avuto il Museo della Shoah, da annoverarsi accanto ai musei di capitali come Berlino, Parigi, Washington e Gerusalemme, ma anche Ferrara avrebbe avuto un proprio museo (e 15 milioni di euro per istituirlo), ridenominato, in una clausola aggiunta alla legge finanziaria del dicembre 2006, “Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah”. Il museo ferrarese avrebbe fatto parte di un progetto diffuso sull’intero territorio nazionale dedicato alla memoria e alla narrazione ufficiale della storia della Shoah; ma vi avrebbe esplicitamente contribuito come uno dei vertici di quella millenaria storia ebraico-italiana descritta in precedenza, con tutti i suoi molteplici centri e storie distinte di prosperità e persecuzione, di emigrazione e immigrazione, di espansione e distruzione lungo tanti secoli. Come vedremo, il Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) di Milano ha messo e continua a mettere le proprie competenze a disposizione dei progetti sia di Roma che di Ferrara. Peraltro, in un recente lavoro ha presentato una concezione interessante e particolarmente articolata per un’unica, trasversale e complementare, rete nazionale di musei della Shoah costituita da quattro distinti elementi, che rappresentano le pluralità geografiche – ma anche le dimensioni multiformi e multimediali – di una cultura relativa alla storia e memoria dell’Olocausto nell’Italia del XXI secolo. Come Michele Sarfatti, storico e direttore del Cdec, ha spiegato in un articolo del 2007, i quattro spazi, da concepirsi come un unico “spazio”, saranno il Museo della Shoah di Roma; il Museo di Ferrara; un centro per lo studio e la memoria costruito intorno alla Piattaforma 21 della Stazione centrale di Milano (da dove, tra il 1943 e il 1945, partirono quindici convogli di ebrei e altri deportati); e, infine, una mostra digitale permanente, uno spazio “museale” online sulla persecuzione degli ebrei in Italia dal 1938 al 1945. Questa varietà regionale della storia, della cultura e della politica italiana ed ebraico-italiana, nonché le tensioni fra blocchi nazionali, regionali e locali di risposta alla Shoah – e, all’interno di questo già complicato quadro, le ulteriori complicazioni date dallo status di Roma quale caso locale ma anche quale centro “nazionale” simbolico – rappresentano stratificazioni di complessità geopolitica a cui occorre prestare la massima attenzione nell’intento, condotto in questo libro, di individuare una fisionomia italiana nelle risposte storiche date all’Olocausto. (…)

(da Robert Gordon “Scolpitelo nei cuori”, Bollati Boringhieri editore)

Pagine Ebraiche, febbraio 2013

(24 gennaio 2013)