Contro chi si gonfia il petto

Sono involontario ma non incolpevole corresponsabile del profluvio di immagini, richiami, pensieri e parole che si assiepano dentro (e dietro) il Giorno della memoria. Quasi orami un “mese della memoria”, a giudicare dalla ricca messe di eventi. Mi pongo criticamente, ma non polemicamente, il problema di come evitare che esso divenga un ritualismo celebrativo (e autocelebrativo), una cacofonia di voci dove tutti parlano, rivendicando il diritto a dire qualcosa, pur che sia, senza tenere in distinzione gli ordini di significati e la complessità degli eventi che sfociarono in uno sterminio immane. Per inciso, un crepaccio che credo debba rimanere aperto, per dirci che la strada della nostra modernità è costellata di tragici declivi e di giganteschi burroni. È questo il nostro autentico fardello. La Shoah non avvenne in un vuoto ma costituì un pieno di gesti e di azioni coordinate, dove ad essere chiamati in causa furono non solo le vittime e i carnefici ma anche e soprattutto gli “spettatori” (come li definisce lo storico Raul Hilberg), coloro che videro, intuirono o più semplicemente non videro ma vissero comunque quei tempi, offrendo con il loro silenzio compromissorio il peggior viatico allo sterminio. Sono circondato da persone che, a vario titolo, il più delle volte con le migliori intenzioni di questo mondo – il che non è per nulla un’attenuante – scoprono di avere proprio oggi qualcosa di assolutamente fondamentale da dire se non da insegnare. Molti credono che il 27 gennaio sia l’occasione per la proclamazione di eterni principi, per poi dismetterli ventiquattr’ore dopo. Non è il giorno in cui le “vittime sono belle”, salvo poi scoprire che tali non lo rimangono per i restanti dì dell’anno. C’è una retorica dell’accusa che finge di condannare quando invece ha ad obiettivo latente quello di assolvere: si pensi, in materia, al discorso sul “cattivo nazista” mentre la ferocia dei fascismi viene derubricata ad errore, mondandola della intrinseca natura di orrore perenne. C’è un generale problema di autocoscienza critica, che non si supera con l’alibi dei “giusti”, dell’antifascismo (laddove è ancora accetto), delle buone intenzione e di un candore adamitico tanto ripetuto quanto falso: le società europee ospitarono lo sterminio, nel senso che lo resero non solo possibile ma per più aspetti quasi “necessario”. Parlare al mondo arabo-musulmano di questa cosa, una questione di pedagogia pubblica, e quindi politica, che dovremmo avere il coraggio di porci, prima o poi, implica anche il sapere che fummo noi occidentali a massacrare in maniera industriale. Quanto meno, lo furono non pochi dei nostri connazionali e dei cittadini dell’Europa di qualche decennio fa. Se le obiezioni negazioniste, che in realtà sono abiezioni, che ci arrivano dall’islamismo radicale non hanno fondamento alcuno, rimane tuttavia la sfida di spiegare e spiegarci il perché. Come dice Georges Bensoussan, nella sua sintetica e bellissima «Storia della Shoah» (pubblicato dalla benemerita Giuntina, da leggere assolutamente!) si tratta di una sfida antropologica, prima ancora che di altro genere. Non di meno, vorrei che riuscissimo a superare il monito – quasi intimidatorio, per certi aspetti -, rivolto soprattutto ai giovani, che rinvia alla memoria come ad un “dovere” (cosa che non ho mai capito, per la verità), per invece ragionare laicamente su di essa come si fa per un diritto, da conquistare di generazione in generazione. Altrimenti la piegatura particolaristica rischia di avere il sopravvento e di fare sì che alla tenace trama della storia, che unisce i diversi facendoli eguali portatori di una comune cittadinanza, si sostituisca il ruggito di chi si dichiara al di sopra del giudizio. Si tenga a mente, infatti, che i nazisti si autodefinivano sempre e comunque come “vittime” e mai in quanto carnefici. Andavano professando come intimo atto di fede il fatto che uccidessero gli ebrei per non esserne uccisi. Non basta dire e dirci che fosse una falsità clamorosa, poiché convinceva molti di coloro che la ascoltavano, suffragando il consenso al regime. La megamacchina dello sterminio fu resa possibile anche da questo atteggiamento vittimistico, che a tutt’oggi opera nelle nostre società. Non la comprenderemmo se non partissimo dalla competizione che nella cultura moderna c’è rispetto all’assumere su di sé il (o l’identificarsi nel) ruolo di “vittima” di qualcuno o qualcosa, all’eterna ricerca di un risarcimento. Fatto che non rende agli occhi altrui gli ebrei più amabili, come qualcuno ingenuamente crede. Se ne invidia, invece, l’essere divenuti, sia pure proprio malgrado, l’espressione del paradigma della sofferenza, al quale rifarsi per traslarlo poi su di sé. Così nel radicalismo islamico o in certi atteggiamenti rivendicazionisti, che proliferano anche in settori della cultura occidentale. Ancora una volta, in una sorta di eterogenesi dei fini, l’ebraismo rischia di vedersi imputato di volere rubare qualcosa a qualcuno: se prima erano le ricchezze materiali, e il potere, ora è lo status, inteso come molto remunerativo, di vittima. Da ciò, tra l’altro, i demenziali discorsi sulla «menzogna dell’Olocausto», che si basano sul presupposto che gli ebrei si siano inventato tutto perché in questo modo possono ricattare i non ebrei con i sensi di colpa e soggiogare le società ai propri voleri. Anche a questo, malgrado le buone intenzione, può allora condurre l’ipertrofia della memoria quand’essa non è temperata da una salda intelaiatura culturale che riposa nella sensibilità della collettività. Da sé, la testimonianza non basta, in altri termini. Ciò che la storia della Shoah deve quindi tramandare, al di là della cognizione dei fatti, è il senso della responsabilità civile, che a sua volta rinvia alla necessità di riconoscere nello sguardo dell’altro il volto proprio. Senza questa consapevolezza, temo che tutto il resto rischi di risultare vano. Ma va da sé che la discussione, su questo e su altri temi, sia aperta e non finisca certo con il calare del sole che di qui alle prossime ore sancirà la conclusione di questa particolare giornata, soprattutto per i non ebrei.

Claudio Vercelli

(27 gennaio 2013)