Tea for Two – Mi salverebbe o no?
Ricordo bene quando me ne hanno parlato la prima volta. Ero alle elementari, a scuola ebraica e non avevo dato alcun peso alla cosa, esattamente come quando sono cadute le Twin Towers. Leggevamo un testo di antologia che si chiamava Wasser bitten ed era accompagnato da una foto di gente stipata in treno che pregava per avere dell’acqua. Mi sembrava una richiesta come un’altra, avevo una tipica indifferenza di bambina, a causa della quale quando vedi la morte di Mufasa nel Re leone a cinque anni non batti ciglio e quando ne hai venti prorompi in un pianto torrenziale. Tornata a casa, con uno dei miei soliti completi lilla e la faccia tonda e gioconda, mi imbatto in mia madre e le dico con leggerezza che devo rispondere alle domande di un testo che si chiama Wasser bitten. Poi sorrido, non so nemmeno perché lo faccio, forse per reprimere la nota stonata che percepisco in lontananza. Mamma di solito così serafica, si oscura e mi dice: “Ma non hai capito che non possono scendere dal treno? Pensa se ci fossero al loro posto…”. E dice il nome della mia migliore amica e del bambino per cui avevo una cotta. Sa bene che dirmi “pensa se ci fossi te” non avrebbe ottenuto alcun risultato. Allora la guardo con gli occhi iniettati di rabbia e piango. Piango perché non voglio sapere, non voglio pensarci, vorrei continuare a non sapere e non scontrarmi con la durezza del mondo. Così comincia il mio rapporto con la Shoah, come una elaborazione del lutto per fasi. Se prima negavo con il sorriso, dopo il bernoccolo preso contro la verità inizio ad ossessionarmi al tema e a vivere nella tragedia. Allora hai quel senso di colpa tutto ebraico per i sommersi e i salvati. E sei la nipote della generazione ferita e hai paura. Perché tutto diventa più sbiadito, perché le persone sbuffano se ne sentono ancora parlare, perché tu stessa sei in conflitto con la storia. Ed eccomi immersa in un’adolescenza passata tra treni per la vita e notti ascoltando Elie Wiesel. A mettermi subito in guardia e a sospettare di tutti. Poi la vita, matrigna e strana come è, ti insegna a convivere con il dolore. Cammini e hai paura di vivere perché potresti dimenticare. Le cicatrici fanno paura, fanno impressione, bisogna nasconderle per essere accettati, ci si ripete. Ma la verità viene a galla, allora ti ritrovi in maniera incontrollata a fare quel giochetto che Nathan Englander fa con sua sorella e appena conosci qualcuno ti chiedi in maniera apparentemente folle: “Mi salverebbe dai nazisti o mi denuncerebbe perché sono fastidiosa?”. Forse il momento peggiore è stato quando una mia cara amica mi ha guardato e sinceramente addolorata mi ha detto: “Non vi fidate più di noi, vero?”. Mi ha fatto soffrire ancora di più di qualche ventenne represso che si lamenta della sovraesposizione della memoria. E poi vedo un’altra compagna di studi, che non ha scritto alcuno status su facebook per il 27 gennaio, ma ha pubblicato un’immagine di Maus. Sorrido tristemente. E mi fido.
Rachel Silvera, studentessa twitter@RachelSilvera2
(28 gennaio 2013)