Il Rav, i diritti civili, il dibattito

I primi entusiasmi, come è noto, sono stati suscitati dall’attenta e intelligente citazione riservata a Bernheim da Benedetto XVI nel suo discorso di Natale, cui è seguita una lunga, appassionata intervista che a questa figura di spicco dell’ebraismo europeo ha dedicato l’autorevole quotidiano cattolico francese La Croix. La grande attenzione dedicata a questa sintonia dal quotidiano vaticano Osservatore romano basta da sola per comprendere che non ci troviamo di fronte a una novità di poco conto. Fin lì niente di male, anzi, forse il segno di una nuova attenzione, perché insomma, come ha avuto modo di commentare ironicamente lo stesso Rav Bernheim, “dopo 19 secoli di malintesi e persecuzioni, un segno di ascolto non guasta”. Ma a dimostrare come le buone notizie siano destinate talvolta a viaggiare su terreni assai accidentati ci hanno pensato subito in molti. A cominciare da coloro che avrebbero voluto il rav Bernheim in piazza dalla loro parte, prima ancora di aver compreso esattamente le sue parole, e dalle cadute della stampa italiana (Ernesto Galli della Loggia in prima fila) che ha sempre preferito un frettoloso sensazionalismo al reale di desiderio di comprensione. Non si sono accorti che uno dei libri più belli del rav Bernheim porta il titolo di “Un rabbin dans la cité” (Un rabbino immerso nella società, nei suoi problemi, nelle sue sofferenze)? No, non tutti almeno, è così è stata necessaria un’ulteriore uscita pubblica del rav. Di fronte ai microfoni di Jean-Pierre Elkabbach (Europe1), in un nuovo, serratissimo confronto, il rav Bernheim ha chiarito che a scendere in piazza e confondersi con un fronte che, dietro alla bandiera dei valori della famiglia, dimostra di voler coltivare tutt’altri interessi, lui non ci pensa nemmeno. Noi – ha detto il rav – abbiamo il dovere di affermare i nostri principi, ma anche di rispettare prima di tutto l’ordine repubblicano, non certo di costituire una coalizione di religioni per intralciarne la strada. E riguardo alle sue chiare opinioni sulla necessità di riservare alle coppie eterosessuali e ai bambini in adozione diritti specifici che non possono essere assimilati a diritti generici e al dibattito che ne è seguito, gli è stato chiesto, le sue opinioni non hanno fatto l’unanimità neanche in campo ebraico. “Se c’è un dibattito – ha tagliato corto il rav per far comprendere come l’ultima delle sue intenzioni sia giocare a fare il papa – bisognerà pure che ci siano opinioni differenti”. Parole chiare sul pluralismo. E parole chiare anche a chi specula, giocando anche con irresponsabili sensazionalismi, sull’inquietante intensificarsi di atti di antisemitismo, quando il rav ha ammonito che “l’antisemitismo in Francia non è un problema degli ebrei francesi, è un problema per l’insieme della società francese”. Ma chi ha cercato di tirarlo per la giacca non si è accorto che le maggiori voci dell’ebraismo francese hanno accolto con rispetto, ma con dissenso lo studio del rav? Che il filosofo Bernard-Henry Lévy abbia tagliato corto spiegando come in una società evoluta “il matrimonio è un contratto e non un sacramento”? Che il rav Bernheim, invece che inviargli una scomunica gli ha fatto avere l’invito a partecipare a un sereno confronto comune che si è poi svolto nelle ore a seguire? Non hanno preso nota che, secondo l’ultimo studio del Public Religion Research Institute, l’81 per cento degli ebrei americani è chiaramente favorevole al riconoscimento di tutti i diritti civili alle coppie dello stesso sesso? Non sanno che la Corte Suprema di Israele ha posto regole di base fra le più avanzate al mondo nel riconoscimento delle minoranze sociali e sessuali e che in Israele si è addirittura celebrato recentemente il primo divorzio di una coppia dello stesso sesso che aveva contratto matrimonio altrove? Non si rendono conto che il mondo ebraico non può essere un coro di chierichetti, ma è una società complessa, aperta, nell’ambito della quale il rabbinato svolge un indispensabile ruolo di guida spirituale e deve contemporaneamente interagire con la libertà di scelta delle persone? Pare di no. Tanto che con l’autorevole firma di un pensatore come Ernesto Galli della Loggia, il Corriere della Sera ha archiviato in prima pagina il 2012 sui toni di una riflessione dedicata al ruolo dell’ebraismo nel dibattito fra politica e religioni. Dal testo si apprende che l’autore ha ascoltato con attenzione il discorso di Natale di Benedetto XVI ed è rimasto colpito dalla inconsueta lode che il papa riserva al documento del rav Bernheim. A Galli della Loggia piace unire la propria voce, lasciando intendere che il documento del rabbinato francese costituisca una rara e coraggiosa novità nel quadro di un ebraismo solitamente silente, soprattutto in Italia, sulle grandi questioni civili. Un ebraismo inquinato inoltre da un gran numero di ebrei ansiosi di gettare alle ortiche la religione dei padri e di intraprendere un percorso di radicale emancipazione- secolarizzazione per “integrarsi in pieno con le élite laico liberali sulla via di prendere dovunque il potere”. Di che stupirsi. E’ ben noto, e non da oggi, come la brama di potere induca spesso gli ebrei ai comportamenti più scostumati. Ma al di là di questi triti, penosi stereotipi di ritorno, l’editoriale del Corriere sembra destinato a lasciare il segno. Da un lato, infatti, si basa su presupposti del tutto immaginari e alquanto infondati. L’ebraismo italiano, e con esso il suo rabbinato, è stato silente solo per chi non ha voluto ascoltarlo. Solo per citare pochi esempi, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni usò oltre cinque anni fa argomenti solidi e parole ben chiare, per alcuni anche troppo chiare, per dire le stesse cose che oggi ci ripete il rav Bernheim. Chi volesse rinfrescarsi la memoria farebbe bene a rileggerselo. Il rabbino romano Gianfranco Di Segni è intervenuto più e più volte, anche su queste pagine, dimostrando come la ricerca sui temi di bioetica sia al centro della riflessione rabbinica contemporanea. Il rabbino di Torino Alberto Moshe Somekh usò parole molto chiare ai tempi del referendum sulla fecondazione assistita del 2005 per marcare una posizione ebraica ben diversa da quella della Chiesa cattolica. E da quelle parole non si deduceva solo una differenza di posizioni. Ma anche che nella stagione in cui il mondo cattolico andava predicando il disimpegno civile e il dovere del cittadino religioso di far fallire il referendum (ciò che puntualmente avvenne con i tragici risultati di emarginazione dal mondo progredito che punta sulla ricerca scientifica), per contro il dovere religioso degli ebrei italiani era quello di andare a votare. L’ebraismo è complesso, spesso contraddittorio, ma commette un grossolano errore chi per assecondare il proprio ragionamento confonde la libertà di pensiero e di ricerca, il rispetto per la pluralità delle sensibilità che va di pari passo con l’esigenza di rispetto della Legge ebraica, come una latitanza. L’intervento del Corriere risulta quindi viziato da una ruvida superficialità che non può giovare al progresso di un dialogo fra le grandi religioni. E in quanto tale dovrebbe essere rispedito al mittente. D’altro canto, nonostante muova da una forzatura inaccettabile, l’editoriale di Ernesto Galli della Loggia finisce per sollevare interrogativi pressanti e anche fosse solo per questo motivo possiede meriti di non poco conto. Come mai, se è vero come è vero che il rabbinato e il mondo ebraico italiano pensano e discutono, la società percepisce allora così debolmente questo segnale? Manca la volontà di ascoltare? O manca piuttosto la volontà di usare parole chiare, di farsi capire? O ancora non dovremmo forse anche noi, tutti noi, a cominciare dagli ebrei che lavorano sul fronte dell’informazione, ripensare il nostro lavoro e l’efficacia del nostro impegno? Se un dibattito serio sulla funzione degli ebrei italiani nella società e sulla maniera di presentare, di comunicare questo ruolo, prenderà effettivamente l’avvio, l’editoriale del Corriere, pur reggendosi su presupposti del tutto sballati, avrà comunque un grande merito. Da una stortura, come il Talmud insegna in pagine memorabili, possono in definitiva scaturire molte meraviglie.

gv

Pagine Ebraiche, febbraio 2013

Quello che spesso si dimentica di dire

Il documento del rav Bernheim è a disposizione dei lettori nella versione italiana curata da Ada Treves. Dedicato alle tematiche sollevate dal Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim è anche l’istant book pubblicato dalle Edizioni Belforte col titolo Quello che spesso si dimentica di dire. Oltre alla traduzione integrale del testo di rav Bernheim il volume propone alcune riflessioni sia di parte cattolica che ebraica con interventi di monsignor Luigi Negri, del rav Alberto Moshe Somekh e di Giorgio Israel. “Lungi dal preferire il silenzio – scrive rav Somekh – ogni ebreo deve impegnarsi con ogni mezzo possibile per far conoscere gli insegnamenti della Torah al mondo che lo circonda senza distinzioni di religione o cultura, in modo da essere d’aiuto anzitutto a coloro che si confrontano con l’omosessualità in modo onesto”. Ben venga dunque, prosegue il rav, “la collaborazione con i vertici della Chiesa Cattolica, con la quale per molti versi il mondo ebraico può sviluppare un’adeguata azione comune per la difesa della dignità, della stabilità e della sacralità della famiglia, richiamandosi agli insegnamenti della tradizione biblica fin dai primordi”. L’opera sarà consegnata lunedì da monsignor Negri nelle mani di papa Benedetto XVI.

(1 febbraio 2013)