Il pieno della Memoria e il vuoto della Storia
Ho dunque finito, anche se qualche ulteriore ricaduta la misurerò ancora nelle settimane a venire, il mio abituale giro per il Giorno della Memoria. Anzi, dovrei dire della settimana se non, forse, del mese. Non me ne dolgo né me ne compiaccio. Fa parte del lavoro che svolgo e, tutto sommato, posso affermare che quest’anno si è rivelato, nel suo complesso, un’esperienza per nulla stanca, come invece temevo. Centinaia di studenti incontrati, argomenti impegnativi affrontati (anche riguardo ad Israele, ma guarda un po’), ritorni positivi dal pubblico, grande interesse per qualcosa che, a torto o a ragione, spesso si ritiene invece inflazionato. Certo, gli aspetti confortanti nulla tolgono alla necessità di una riflessione ad ampio raggio sul “buon uso pubblico della Shoah”, ovvero su come si debba comunicare al pubblico, quasi tutto composto di non ebrei, il senso condiviso di questa tragedia. Lo sterminio non parla da sé, non ha nulla di auto-evidente. Al di là di certi marketing commerciali. Richiede invece la nostra mediazione, soprattutto da quando i testimoni diretti sono venuti a mancare. Sempre di più ci si affiderà, infatti, a quelli che Raffaella Di Castro chiama i “testimoni del non provato”: le seconde, le terze, le quarte generazioni, che si stanno succedendo oramai da ben dopo che il crimine è venuto consumandosi e concludendosi. Per lavorare con gli studenti, ad esempio, mi è sempre più di aiuto Maus, il capolavoro di Art Spiegelman. Peraltro non è paradossale riscontrare come mentre la fisicità di Auschwitz si allontana nel tempo la sua inquietante ombra paia invece stagliarsi sempre più su di noi. Si tratta di una sfida, e come tale va accolta. Ho già avuto modo di richiamare le mie perplessità su quella che considero una retorica, in sé non certo deprecabile ma senz’altro discutibile, quella che fa della memoria un dovere. Se tale precetto mi pare assolutamente fondato sul piano privato – ma allora parliamo di famiglie, del loro interno, dei legami spezzati e di come essi siano stati solo parzialmente ricomposti – qualora invece si voglia dotarsi di una pedagogia civile (a ciò in qualche modo siamo chiamati) allora i termini del problema mutano e anche radicalmente. Poiché abbiamo a che fare con platee molto diverse, spesso accomunate da un solo elemento, quello di non riuscire a cogliere la complessità della trama storica, a partire da quella dello sterminio. A tale incoscienza si supplisce, il più delle volte, con il richiamo all’identificazione emotiva. Le vittime piacciono perché sono idealizzate come buone e giuste, sospese in una sorta di vuoto atemporale e acritico, quindi quasi angelicate. Aggiungo che in ciò conta anche il fatto che viviamo in un paese dove la cultura prevalente ha solidi ancoramenti nel cattolicesimo. Se non si comportano più secondo le aspettative che qualsiasi spettatore di storia un po’ sprovveduto nutre, partendo da una visione dicotomica della realtà (tutti quelli di una parte cattivi, gli altri buoni, sempre a prescindere), tra l’altro molto “televisiva”, ecco che ad esse, e alla loro progenie, viene immancabilmente imputata la colpa di essere dalla parte del torto. Su questo complesso effetto di proiezione, traslazione e capovolgimento ci sarebbe di che discutere molto, a partire dalla vicenda dell’implacabile (pre)giudizio verso Israele. Ma è dentro tale logica anche chi, cercando di giustificare l’ingiustificabile, porta a riscontro della sua buona fede l’amicizia con lo Stato ebraico. Come se tutto si risolvesse in una sorta di plebiscito, a favore o contro, in merito a questo soggetto storico. Anche qui a prescindere da tutto il resto. A prescindere dalla nostra storia d’italiani, in altre parole. Che viene bellamente rimossa, sostituendo ad essa non un atto di fiducia e di vicinanza ad una nazione ma una sua immagine molto ideologica, dove tutto viene ingoiato e digerito, per così dire. Le polemiche innescatesi dopo le inopportune dichiarazioni dell’ex Presidente del Consiglio, all’uscita dalla cerimonia, molto toccante, di inaugurazione del memoriale Binario 21, raccolgono il disagio che scaturisce dal confronto con il modo di pensare di cui tale figura politica sembra essere portatrice. Lo sterminio degli ebrei viene infatti rescisso dai regimi che lo realizzarono. Diventa un fatto a sé, che si ricompone e viene superato con un solo atto, dichiarandosi “amico” di qualcosa o qualcuno. Di passata vada detto che questo atteggiamento è per più aspetti speculare, quanto meno su un piano mentale, a quello assunto da chi, nel nome del fatto che Israele è lo Stato degli ebrei, ritiene che nessuna solidarietà debba essere espressa nei confronti di chi subì le persecuzioni del passato comminandole ora, nei “medesimi termini”, ai palestinesi. Da questo gioco delle parti non si esce se non si ha la determinazione di spezzarne la circolarità. In discussione, infatti, non è il tasso di simpatia o di condiscendenza verso terzi, ancorché questi siano a noi molto prossimi, ma l’atteggiamento che si intende nutrire verso di sé, ovvero nei riguardi della storia del proprio paese e, di rimando, sugli effetti che essa ha esercitato fino all’oggi, sulle condotte politiche, sui comportamenti collettivi, sulla cultura diffusa e sul tasso di coesione sociale. I nodi irrisolti del fascismo, dei condizionamenti di lunghissimo periodo che ha lasciato nel nostro paese, non si risolvono con il richiamo, invero assai ritualistico, al “cattivo tedesco” così come al “male assoluto”. Si tratta, nell’uno come nell’altro caso, di un esercizio di esorcizzazione e di rimozione. Men che meno si assolvono con un’asfissiante par condicio, quella che mette sui due piatti della bilancia le tragedie del Novecento stabilendo immediate equivalenze e, quindi, neutralizzando le responsabilità che ogni carnefice, nella specificità del suo operato, porta con sé. Come diceva il filosofo, “nella notte in cui tutte le vacche sono nere” si rischia di non distinguere più nulla, facendo di tutte le parti un indigeribile minestrone. Se si deve parlare di revisionismo, nel senso peggiore del termine, in quanto banalizzazione e trivializzazione, lo si trova proprio in questo modo di fare, molto diffuso tra chi evidentemente ha più di una colpa da farsi condonare. Se non altro di riflesso, per inconfessabile identificazione con qualcosa che è stato. Ora, qualsiasi pedagogia civile deve confrontarsi con questi relativismi, che usano la tragedia delle comunità ebraiche europee come uno strumento non per capire quello che è avvenuto e, quindi, comprendere quel che oggi è o potrebbe essere, ma per coprire o per enfatizzare aspetti trascorsi a beneficio della polemica strumentale. La storia non si pone al di sopra delle contingenze del dibattito civile ma cerca di non cadere nei luoghi comuni. Non è un tribunale, come certuni invece pensano, dove trascinare a propria discrezione questo piuttosto che quello, e non è neanche torre eburnea. Piuttosto è esercizio auto-critico. È un esercizio, nel nostro caso, sull’anatomia del nostro paese, tanto più necessario dal momento che oggi si trova in uno stato di grande sofferenza, che rischia di trasformarsi in pericolosa insofferenza. Ne difetta molto chi, invece, nel nome delle vittime, la cui memoria attribuisce esclusivamente a sé, trasforma il tutto in un perenne vittimismo. Dipingendo gli orrori come degli errori, ancorché gravi, completamente slegati dall’humus ideologico in cui maturarono, concatenandosi e infine generando lo sterminio. Il vecchio teorema deresponsabilizzante del “non è colpa nostra, sono le cattive amicizie ad averci indotto in errore”, non regge un unico secondo davanti non solo ad un qualsiasi giudice ma anche all’inflessibile e tuttavia onesta valutazione di un genitore che, scoperto il proprio figlio avere commesso una violazione delle norme, ne intenda sanzionare, per educarlo, la condotta. E poi, gli amici bisogna saperseli scegliere, allora come oggi.
Claudio Vercelli
(3 febbraio 2013)