Dibattito sui diritti civili alle coppie di fatto Superare i difetti di comunicazione

Matrimonio omosessuale, omoparentalità, adozioni. Temi di grande attualità cui il numero di febbraio di Pagine Ebraiche in circolazione dedica quattro pagine speciali. A confronto le voci di un rabbino e di tre intellettuali. “Per quanto riguarda l’informazione, fuori dall’ambito strettamente comunitario – scrive Stefano Jesurum, giornalista – il punto di vista ebraico è pressoché muto. Un silenzio che ci interroga con severità”.

Nel commentare l’articolo di Ernesto Galli della Loggia su religioni, conformismo e matrimoni gay (Corriere della Sera, 30 dicembre 2012), Guido Vitale mi pare aver delimitato il campo della discussione a tre punti secondo me essenziali (l’Unione informa, 9 gennaio 2013). Scusandomi fin d’ora con il direttore di Pagine ebraiche per l’approssimazione della sintesi, dirò che il succo del suo argomentare mi trova assolutamente concorde: 1) non credo sia vero che l’ebraismo italiano e i suoi rabbini tacciano sui grandi temi civili; 2) non mi risulta che gli ebrei cosiddetti laici e con un profilo in qualche modo socialmente pubblico abbiano gettato alle ortiche la religione dei padri; 3) la società italiana non sembra essere – diciamo così – informata di quanto, appunto, in seno al pensiero ebraico nostrano, si discuta di grandi temi civili, etico-ideologico-politici. Senza annoiare il lettore con un riassuntino delle teorie di Galli della Loggia riguardo al nesso tra le prese di posizione di papa Benedetto XVI e quelle del gran rabbino di Francia Gilles Bernheim, vorrei invece soffermarmi sul terzo punto, cioè sulla “ignoranza” che accomuna numerosissimi – e spesso validissimi – intellettuali commentatori. Una questione cruciale poiché se il fior fiore dell’intellighenzia nulla o quasi sa delle riflessioni, delle prese di posizione, e talvolta delle diatribe che circolano nelle nostre kehillot in merito a questioni riguardanti l’esistenza nella modernità odierna – dall’omosessualità, appunto, all’omoparentalità, dal fine vita alla fecondazione assistita eccetera – questo è un problema che mi riguarda direttamente. Mi riguarda come ebreo, mi riguarda come cittadino, mi riguarda come giornalista/comunicatore. E naturalmente mi riguarda come cittadino giornalista ebreo. Le risposte, o se si preferisce le spiegazioni, all’interrogativo del perché il mondo che ci circonda sia così “ignorante” sono – io credo – molteplici ma non troppo complesse. Intanto è indubbio che gli ebrei italiani siano pochi, pochissimi se paragonati a realtà diasporiche come la Francia, il Regno Unito o l’America. Ergo non fanno notizia se non per lo più intorno al 27 gennaio, in occasione di atti di razzismo o in periodi di ebollizione mediorientale. Da questo dato discende la consapevolezza che, forse, più che raccontarci quanto la società sia disinformata, dovremmo serenamente iniziare a meditare sull’ipotesi che alla società italiana proprio non interessi ciò che pensiamo noi cittadini-ebrei e a maggior ragione che cosa pensano i rabbanìm. Insomma, manca la volontà di ascoltare o manca “l’interesse” a farlo? In periodi non certo lontani della storia contemporanea italica il Paese però interrogava, avvicinava, chiedeva un’opinione illuminante a figure come rav Elio Toaff. E soprattutto, dopo averlo ascoltato, lo capiva con il cervello, con il cuore, con la pancia. Si dirà: certo, rav Toaff era una tipica personalità del dopoguerra, era stato partigiano, parlava il linguaggio della giustizia e della libertà, la lingua della Resistenza, arricchendola di sapienza halachica. Vero. Ma in più quando si rivolgeva alle donne e agli uomini – agli italiani – che sentiva nell’intimo suoi fratelli, usava espressioni e concetti profondamente ebraici tanto quanto universali. Esattamente come faceva, per portare un altro esempio, il nostro amato preside di liceo (al Berchet di Milano), Joseph Colombo, in anni in cui essere guida rispettata di una gioventù alla scoperta del cambiamento e della ribellione non era una passeggiata. Ecco, io ho l’impressione che rav Toaff e il professor Colombo parlassero agli ebrei e ai non ebrei con la medesima forza e apertura, con uguale chiarezza, con la stessa universalità morale di rav Gilles Bernheim quando parla ai francesi, a tutti i francesi, o di rav Jonathan Sacks quando si rivolge agli inglesi, a tutti gli inglesi. Si domanda, e ci domanda, Guido Vitale: “Come mai, se è vero come è vero che il rabbinato e il mondo ebraico italiano pensano e discutono, la società percepisce allora così debolmente questo segnale?”. Temo che la risposta vera – la dobbiamo innanzittutto a noi stessi – stia in una sorta di autocritica generale. Noi ebrei italiani siamo divisi, e questo a volte non è un male, ci salva dal rischio del pensiero unico, tuttavia nella nostra differenziazione (di fede, di ortoprassi, di rito, di ideologia, di orientamento politico) non troviamo mai momenti di intensa unità, non ci sforziamo affinché prevalga ed emerga la nostra jewry. Il rabbinato svolge il proprio lavoro di guida e giudice halachico però, con le eccezioni del caso, è a mio parere autoreferenziale, chiuso, ondivago, attento a non scatenare nuovi conflitti di cui certo non si sente il bisogno e quindi – come dire? – un po’ timido e discorde. Insomma – non si offendano i miei rabbanìm – un pochino vago, inafferrabile. In conclusione, l’autocritica per essere tale deve essere a 360 gradi, no? Allora diciamolo: per quanto riguarda l’informazione, fuori dall’ambito strettamente comunitario (non per piaggeria, voglio ripetere che Pagine ebraiche è stato ed è un eccellente passo verso la rivoluzione culturale di cui abbiamo bisogno), il punto di vista ebraico è pressoché muto. Un silenzio che ci interroga con severità.

Stefano Jesurum, Pagine Ebraiche, febbraio 2013

(5 febbraio 2013)