Dibattito sui diritti civili alle coppie di fatto Interrogativi nel mondo che cambia

Matrimonio omosessuale, omoparentalità, adozioni. Temi di grande attualità cui il numero di febbraio di Pagine Ebraiche in circolazione dedica quattro pagine speciali. A confronto le voci di un rabbino e di tre intellettuali. “Non preoccupiamoci troppo – scrive Davide Assael – saranno i bambini e le bambine del domani a scegliere quale dei loro genitori sarà il maschio e quale la femmina e lo faranno riconoscendo le loro caratteristiche affettive, che si caratterizzeranno, come in tutti noi, per rendere preponderante l’una o l’altra delle priorità che li abitano”.

Ha fatto molto clamore il documento, pubblicato l’ottobre scorso, del Grand Rabbin di Francia Gilles Bernheim a contrasto del progetto di legge Hollande con cui si vorrebbe offrire copertura legislativa alle nozze gay. Il ragionamento, che ha un fondamento filosofico coerente con la formazione del rabbino, non propone un discorso sistematico ma affronta una serie di argomenti, che, negli ultimi anni, hanno segnato il dibattito nelle diverse latitudini del mondo in cui si è aperto. Il primo punto si riferisce al cosiddetto argomento della tolleranza, per cui le persone omosessuali sarebbero vittime di discriminazioni perché viene loro negato il diritto universale al matrimonio. Il rabbino ha gioco facile a sostenere che non può trattarsi di un diritto universale e che certo non basta l’amore fra due persone a garantirlo. È, forse sufficiente che un padre ami sua figlia perché possa sposarla? Un argomento che vale anche per l’amore pedofilo. E lo stesso, aggiunge Bernheim, per il diritto alla genitorialità: non basta volere un figlio per poterlo avere. L’amore è necessario, ma non sufficiente; per crescere un figlio ci vuole ben altro. Ma, c’è da chiedersi, chi ha parlato di un diritto universale che deve garantire al primo che lo desidera un figlio o una figlia? Certamente, come avviene per le adozioni di coppie eterosessuali, vanno fatte tutte le considerazioni possibili sull’opportunità del caso specifico. Oppure, si pensa che una persona omosessuale sia, costitutivamente, un esempio negativo per il figlio? Il che fonderebbe, diciamo così, il discorso su un pregiudizio aprioristico riportandolo al punto di partenza. La genitorialità non è un diritto universale, esattamente come ogni diritto esistente (ha libertà di parola un nazista? Ha libertà di abusare un pedofilo? Ha libertà di rubare un ladro?). Le distinzioni ci sono e ci saranno sempre, ma la discriminante non può essere scelta a priori. E, qui, si inserisce l’argomento a mio giudizio più convincente, quello dell’esigenza genealogica. Come ci ha insegnato Edmond Jabés, in ogni persona esiste una “nostalgia dell’origine”, che implica, secondo la prospettiva del rav, un diritto alla conoscenza del proprio luogo di provenienza, soprattutto per non lasciare vuoti psichici durante lo sviluppo della persona. Ma non vale lo stesso per i casi di fecondazione eterologa, dove, fino a poco tempo fa, non si discuteva neanche sul diritto a non conoscere l’identità del donatore da parte della coppia? Ovviamente, il diritto era esteso anche al nascituro, che deve essere messo al riparo da oscillazioni identitarie. Do per scontato che il Grand Rabbin, che spesso apprezzo e del cui valore intellettuale ho assoluto rispetto, sia coerente con se stesso ed abbia fatto sentire la propria voce anche in quel caso. Il dibattito, però, è avanzato e si sono individuate strategie che garantiscono il diritto alla genitorialità della coppia pur informando il bambino della sua vera origine, anche permettendogli di sviluppare un rapporto con il donatore o donatrice. Prassi già ampiamente praticata nel caso dei bambini e delle bambine adottati. Perché per le coppie omosessuali non deve valere lo stesso principio? Forse, perché sono omosessuali? O si vuole negare il diritto a un bambino di poter essere adottato da una famiglia nel caso conosca i suoi genitori biologici? Certo, come avvenuto migliaia di volte nella storia, l’immagine della famiglia cambierà, ma da qui a sostenere un necessario sviluppo patologico del figlio ce ne passa. E, se non c’è in un caso, non si capisce perché deve esserci nell’altro. Forse, perché in questo caso si tratta di persone omosessuali? Infine, rav Bernheim propone l’argomento culturale. Lui, dice già nell’Introduzione alla sua riflessione, fa riferimento all’etica biblica, dove l’origine della filiazione nasce dalla complementarietà di uomo e donna. Ora, a parte il fatto che a me è stato insegnato che il monoteismo si definisce per individuare un’origine unitaria contro la prospettiva dualistica delle religioni mitiche, che sostengono, invece, un conflitto strutturale fra due polarità contrapposte (spesso identificate nel maschile/femminile, appunto), mi pare che questo sia il punto in cui emerge il quadro filosofico su cui poggia tutto il discorso. Un quadro radicalmente dualistico, che sembra non tenere conto degli ultimi 100 anni di riflessione filosofica, dove la nettezza dei limiti che separano il bene dal male, il razionale dall’irrazionale, il maschile dal femminile è stato ampiamente messo in discussione. Sì, perché non servono 100 e più anni di psicanalisi per ricordarci che l’individuo è sempre un composto di maschile e femminile, il che significa due cose. Primo che non esistono distinzioni nette che possono tagliarsi con l’accetta. Come già diceva Giordano Bruno (per restare nell’ambito filosofico proposto dal rav), gli uomini vedono la danza dell’ape che gira in tondo e ne deducono la perfezione circolare dell’intero universo; ma l’ape non forma mai una circonferenza perfetta, semmai un’ellisse un po’ sbilenca, sono gli uomini a piegare la realtà alla propria esigenza di rassicurazione. Secondo insegnamento, che i limiti esistono anche se si accetta una prospettiva critica. Solo i limiti vengono stabiliti da parametri che devono valere per tutti, non per alcuni sì e per altri no (concezione unitaria). In ogni passaggio epocale (si veda il dibattito sull’abolizione della schiavitù, sul concedere pari diritti alle persone di colore…), l’argomento è sempre lo stesso: il cambiamento porterà all’anarchia sociale. E mai è stato così. Non preoccupiamoci troppo, saranno i bambini e le bambine del domani a scegliere quale dei loro genitori sarà il maschio e quale la femmina e lo faranno riconoscendo le loro caratteristiche affettive, che si caratterizzeranno, come in tutti noi, per rendere preponderante l’una o l’altra delle polarità che li abitano. Ultimissima considerazione. Io faccio ricerca in ambito filosofico e, ormai da un po’ di anni, mi confronto con i grandi testi di questa tradizione. Ho imparato dai retori greci (ma anche da Aristotele) che ogni evento può essere categorizzato (interpretato) in diversi modi, a seconda del percorso riflessivo che si vuole scegliere. Perché non approfittare di questo dibattito per affrontare il grande tema religione – sessualità – divieto? Non sarà capitato solo a me di sentire al Beth haKnesset battute tipo, ma se adesso entrasse un gay, dovremmo contarlo per il minian? E se un gay fosse stato presente come si sarebbe sentito? Come quell’ebreo indotto ad odiare se stesso perché gli altri lo fanno sentire diverso.

Davide Assael, Pagine Ebraiche, febbraio 2013

(8 febbraio 2013)