Popolo e populismo

Due parole si impongono sulla nostra newsletter per un paio di questioni che anche se non hanno a che fare direttamente con l’ebraismo e gli ebrei come tali chiamano tuttavia in causa ognuno dei lettori in quanto cittadini di questa Repubblica. Nei giorni scorsi, durante un’assemblea di partito, una donna, precaria da molti anni e, prevedibilmente, condannata ad esserlo anche nel futuro, è intervenuta raffrontando la sua sofferta condizione a quella di un’altra persona, figlia di un senatore di quella stessa formazione politica e noto giuslavorista. Di quest’ultima ha stigmatizzato la condizione professionale, ritenuta il risultato di un privilegio e imputandole quindi la colpa di godere di tale invidiabile situazione non grazie al merito personale (che nel nostro paese è una chimera bella e buona, una parola d’ordine evocata come un ectoplasma nelle campagne elettorale o quando si è nella necessità di imporre tagli ai servizi pubblici) bensì in virtù del risultato del nepotismo familistico. In altre parole, con una sorta di pesante apprezzamento, tale perché indirizzato verso una persona indicata con nome e cognome dinanzi ad un ampio uditorio, secondo una prassi che sembra rinviare, anche se inconsapevolmente, alla messa in stato d’accusa al cospetto del “tribunale del popolo”, si è posto al pubblico ludibrio l’esempio di una “privilegiata” da fare oggetto di ostracismo morale e civile. Una sorta di gogna pubblica (e mediatica). La stessa accusatrice, interpellata dopo le numerosissime critiche piovutele addosso, ha poi rincarato la dose, indicando nel fatto che l’accusata avesse cercato di spiegare la sua reale posizione professionale su un social network come un ulteriore indice di colpevolezza. Nelle stesse ore, un operaio edile sessantenne, privo di lavoro, quadro sindacale, si suicidava dopo avere lasciato una straziante lettera di congedo, avvolta nel testo della Costituzione. Si era rivolto al Presidente della Repubblica, al segretario del suo sindacato, aveva continuato fino all’ultimo a lottare e a sperare ma poi, come sopraffatto da un male incurabile, è letteralmente caduto sul campo di battaglia, quello di un lavoro che non c’è più (e che per molti non ci sarà, neanche nel futuro a venire). Cosa c’entrano queste cose tra di loro? Tanto, molto più di quanto si sia disposti a pensare. Si interfacciano, essendo infatti i due volti di una medesima medaglia. Da una parte c’è un’Italia che affonda, nella sostanziale indifferenza di quella restante; dall’altra c’e un’Italia che sentendosi affondare si consegna all’invettiva come ultima risorsa, in ciò forse disponibile, se si dovessero creare le condizioni, ad una qualche avventura politica, non importa con quali rischi propri e altrui. La morte di un lavoratore disoccupato per mano propria, nella sua disperata solitudine, è una tragedia che ci interpella, trovandoci sostanzialmente silenti. La mancanza di conflitto sociale, quand’esso scorra sui binari della legittima rivendicazione e della contrattazione, si trasforma da subito anche nell’assenza di empatia umana, di identificazione nel destino dell’altro. Ognuno ridotto a sé, sempre più prossimo ad una sorta di “nuda vita”, scarnificato da una possente ideologia dei “mercati” che assomiglia alla scienza degli indovini e alle pratiche contenitive e sanzionatorie dei vecchi manicomi. La società si riduce a quella cosa lì, darwinisticamente intesa, dilacerata tra sommersi e salvati, due categorie che si attagliavano ai Lager ma che, per traslazione, assumono un valore comune, condiviso anche in altre situazioni, laddove la radicalità della condizione di certe persone, che equivale anche al loro isolamento (e alla loro potenziale morte), viene messa in luce. Quanto alla seconda faccia, la critica alle élite intesa meramente come legittimo tumulto del “popolo”, è una forma di falsa coscienza tra le peggiori che esistano. Rinvia non alla rivendicazione della cittadinanza sociale – e quindi alla redistribuzione della ricchezza collettiva – ma alla angosciata invidia come motore della mobilitazione. Di fatto è un paradossale elogio dello status quo, in un paese dove l’ascensore sociale non solo si è da almeno vent’anni rotto ma ha iniziato da tempo a funzionare all’ingiù, proiettando il ceto medio verso il basso. Disperato isolamento per mancanza di lavoro, e quindi per la perdita del senso della dignità – cosa che il suicida andava denunciando a piè sospinto, dinanzi ad una società autisticamente ripiegata su di sé – , e rabbiosa impotenza, trasformata in attacco personale contro il “privilegio” del singolo, si tengono insieme come sintomi di un malessere profondo e atavico. Quello della deriva populistica, che si alimenta costantemente non della critica consapevole e condivisa della miseria del quotidiano ma della sentenziosità di chi ritiene di potere additare la persona come simulacro da colpire (e magari anche da abbattere). Tra il suicida e la vituperata allora intercorre un nesso, quello della de-umanizzazione. C’è molta rabbia, in giro, ed invito a coglierne la minacciosa carsicità con la quale si manifesta sempre più spesso. Se le cose dovessero peggiorare temo che antichi refrain mentali di consolidati luoghi comuni, tra cui anche l’impronunciabile – ancora al momento – antisemitismo, potrebbero riacquistare legittimazione. Aggiungo, a beneficio mio e di chi mi legge, che i divari incolmabili che si sono creati tra noi e “loro”, comprendendo nel secondo pronome quanti sembrano osservare con distacco gli infiniti problemi in cui si dibattono molte famiglie italiane, non dovendosene fare carico alcuno, non potranno essere superati con il ricorso all’invettiva del “popolo sovrano”, quello che viene evocato da chi lo sta espropriando di ogni prerogativa reale. Comprendo il disagio della lavoratrice precaria, quello della non più giovane “figlia di papà”, additata ad esempio del privilegio e, soprattutto, la tragedia del muratore trapanese. Non ho grandi risposte: so soprattutto come non se ne può venire a capo, ovvero perseverando in atteggiamenti che concorrono sempre di più a scavare il solco tra chi ha e chi non ha. Chi sta sotto non sempre è peraltro alieno da responsabilità, a tale riguardo. Consegnarsi alle scorciatoie vuol dire perdere la strada e, soprattutto, non saper più quale sia la meta da raggiungere. Questo è poco ma certo, in un momento in cui non sappiamo ancora bene cosa fare ma dobbiamo capire innanzitutto cosa non deve essere fatto.

Claudio Vercelli

(10 febbraio 2013)