Rav David Hartman – Relax, be Jewish!
E’ una bella domenica di sole e sto uscendo per andare al cinema. Letteralmente sulla porta, vengo fermata da un’email. Baruch Dayan Haemet. Una newsletter speciale di Shira Chadasha, la congregazione della quale facevo parte durante gli anni vissuti a Gerusalemme, porta una triste notizia: il rav Hartman, Maestro, rabbino e membro di quel Minyan, non è più fra noi. Senza nemmeno pensarci, la mente va alla ricerca di immagini d’archivio… Quando l’ho sentito parlare per l’ultima volta? Che cosa insegnava? Ricordi confusi affiorano uno sull’altro: le sue mani grandi, continuamente agitate, infervorate e rumorose che sbattono contro il microfono nelle affollate lezioni del lunedì sera, una lunga lezione la notte di Shavuot precedente un anno di Shmità, un anno sabbatico, nella quale critica ironicamente l’heter mechirà, il sistema per cui si vende la terra di Israele a un non ebreo per poter continuare a coltivarla anche durante l’anno sabbatico: “Per sei anni consecutivi noi cerchiamo di sottrarre la terra agli arabi, poi arriva il settimo anno, e li convinciamo a riprendersela!”, la risata enorme, con la bocca aperta e gli occhi di un bambino un po’ insolente che sa di aver detto una cosa che non piacerà a tutti. Ancora una notte di Shavuot: i romani chiedono e ottengono, o forse impongono, di esaminare tutto il Talmud. Lo trovano tutto sommato accettabile, salvo che per un’unica frase negativa contro di loro, sulla quale decidono comunque di sorvolare, in virtù di tutta la saggezza che la controbilancia. Rav Hartman racconta questa storia, contenuta proprio nel Talmud, e ride di cuore al pensiero di quegli ebrei che hanno deciso già tutto: che cosa piacerà e che cosa non piacerà ai romani: chi condanna chi, in questa vicenda? Gli ebrei scrivono una storia nella quale i romani fanno una bella figura parlando bene degli ebrei. Non è comico, nella sua profondità?
Rav Hartman che racconta i due opposti comportamenti di Abramo di fronte alla gustizia divina: discute per salvare Sodoma, ma accetta in silenzio il sacrificio di Isacco. Dobbiamo dare fondo a tutta la nostra capacità di sentire il dolore dell’altro e di porvi rimedio, di opporci ad esso. Questo è Chesed. Diverso è l’atteggiamento quando si tratta di noi, del nostro soffrire, spiega Hartman, e il pubblico, i suoi studenti, tutta la sala lo seguono con gli occhi e col respiro, nessuno vuole perdersi nemmeno una parola del Maestro. L’equilibrio, delicatissimo, è fra l’umana intuizione di che cosa sia morale, il nostro soggettivo senso di giustizia e la totale sottomissione al volere divino. Esiste la Torah, esistono le leggi ed esistiamo noi, che siamo obbligati a interpretarle secondo la nostra comprensione, assumendocene la responsabilità in ogni generazione. Il rav si scaglia contro il rabbinato di Israele che non prende decisioni, per paura, su questioni che provocano sofferenze diffuse: le agunot, donne incatenate in matrimoni dai quali non riescono a uscire e i mamzerim, persone che senza averne colpa si trovano nella condizione di non potersi sposare secondo la Halakhah. Rav Hartman batte il pugno sul tavolo contro qualsiasi ebreo che non azioni il proprio giudizio morale sulle mitzvot, su chi “esegue e basta”. Non tutto è però amaro, nelle sue lezioni, a cominciare dalle dispense color pastello che raccolgono le parole di tutta la nostra storia morale e intellettuale, da Rambam a Soloveitchik, da Chazal a Eliezer Berkovitz, e forse è proprio questo a renderlo unico: la profondità nell’ascolto dell’altro, l’assunzione di responsabilità nell’agire per il bene del prossimo e della collettività (ebraica e non ebraica) si accompagnano alla leggerezza e alla gioia, vera simchà chassidica, nel vivere la propria vita con ironia, senza un’ombra di autocommiserazione. Ancora una volta il doppio modello di Avraham: tentare il tutto per tutto per salvare il prossimo, ma farsi carico delle proprie prove in silenzio. Una rivoluzione gioiosa, quella proposta e vissuta da rav Hartman, e non è un caso che si sia ricongiunto ai suoi padri proprio nel primo giorno di Adar, in cui si incomincia ad aggiungere simchà, gioia, per prepararci a Purim, al “venaafochu”, quello stravolgimento capace di sovvertire l’ingiustizia.
Miriam Camerini
(11 febbraio 2013)